Chiunque ci abbia mai provato sa che fare previsioni corrette è difficile. Lo è anche per chi, come le banche centrali, dispone di centinaia di PhD che hanno a disposizione le migliori banche dati e i modelli econometrici più complessi e sofisticati. Lo è perfino per i componenti dei comitati che prendono le grandi decisioni di politica monetaria.
Chiunque ci abbia mai provato sa che fare previsioni corrette è difficile. Lo è anche per chi, come le banche centrali, dispone di centinaia di PhD che hanno a disposizione le migliori banche dati e i modelli econometrici più complessi e sofisticati. Lo è perfino per i componenti dei comitati che prendono le grandi decisioni di politica monetaria.
L’ampiezza senza precedenti degli errori di previsione commessi in questi ultimi anni turbolenti dallo staff e dai comitati direttivi è lì a dimostrarlo. Si pensi ai famigerati dots, i puntini che ogni tre mesi rappresentano le stime su crescita, inflazione, occupazione e tassi dei singoli componenti del Fomc. Visti a distanza di 6-12 mesi si rivelano regolarmente fuori bersaglio.
Supponiamo ora di vivere in un’altra dimensione e di essere dotati di un’intelligenza superiore, di migliori modelli econometrici e di uffici studi composti dai migliori economisti che hanno lavorato nello staff delle banche centrali e che il nostro denaro è riuscito a portare nel settore privato. Supponiamo anche di essere dotati di buon senso, quello che ad esempio permette di capire che, in una situazione di domanda gonfiata e di offerta in affanno come quella che viviamo dalla primavera del 2020 l’inflazione tende a essere vivace e a mettere radici.
Supponiamo insomma di essere capaci di fare previsioni macro più corrette di quelle delle banche centrali. Che bello, si può pensare, chissà quanti soldi si potranno fare.
Ebbene, non è così, almeno in un orizzonte di tre-sei mesi (e talvolta anche di più). E non solo non si fanno necessariamente tanti soldi a essere i primi della classe, ma si rischia di lasciarne parecchi sul tavolo.
Torniamo mentalmente al maggio 2021. L’inflazione esplode negli Stati Uniti (non ancora in Europa) e dopo un decennio in cui si è mossa pigramente tra lo zero e il 2 per cento, balza agilmente sopra il 5 per cento. La Fed si affretta a proclamare transitorio il fenomeno, ostenta tranquillità e, per essere sicura che il messaggio venga compreso, ci informa che già nel 2022 l’inflazione media anno su anno sarà tornata al 2 per cento. Inutile quindi disturbarsi ad alzare i tassi quando ci sono ancora dei disoccupati da riassorbire in qualche sperduta comunità rurale.
Noi che, nella nostra ipotesi, siamo bravi e preveggenti, sappiamo invece che l’inflazione tenderà a crescere e arriverà quasi a raddoppiare rispetto al 5 per cento. Immaginiamo quindi che la Fed si ricrederà rapidamente e alzerà i tassi (e interromperà il Quantitative easing) in tempi molto brevi. Con tassi più alti i multipli azionari dovranno scendere e si dovranno applicare a utili che risentiranno anch’essi della politica monetaria restrittiva. Vendiamo quindi l’indice SP 500 a 4250.
Passano sette lunghi mesi, arriva novembre e l’SP 500 si muove intorno a 4700. La Fed capitola, abbandona ufficialmente la tesi dell’inflazione transitoria e comincia a mostrarsi sinceramente preoccupata. Chi ha la buona vecchia abitudine di non combattere contro la Fed e si limita a seguirne pigramente i segnali senza preoccuparsi che siano corretti o meno, vende in quel momento e porta a casa lauti guadagni. Non sono proprio i massimi di 4800, che verranno raggiunti un mese dopo, ma ci sono molto vicini.
Passano altri mesi e la Fed non solo compie gesti restrittivi concreti (rialzi dei tassi, fine del Qe e inizio del Quantitative tightening) ma dichiara che sarà inflessibile nella sua lotta all’inflazione, che proseguirà fino a che questa non sarà stata completamente debellata.
I mercati si avviano lungo la strada del ribasso, ma fin da quasi subito qualcuno inizia a spingere lo sguardo più in là e ad accelerare, nella sua testa, processi che richiedono tempi lunghi. E così già in marzo inizia a circolare l’idea che siamo già in recessione. Se siamo già in recessione significa che fra sei mesi, massimo nove, ne saremo fuori grazie anche a una Fed che nel frattempo avrà iniziato a tagliare i tassi. Ecco allora che bond e azioni, che stanno scendendo, sembrano offrire una buona occasione di acquisto. Alcuni fondi specializzati in tecnologie di frontiera, vedendo le quotazioni che scendono, comprano aggressivamente. Il bear market però continua, anche se in modo irregolare.
Passano altri mesi, l’economia rallenta, ma non tanto da potere già dire che è in recessione, e l’attesa del pivot della Fed si fa quasi messianica. La Fed, si dice, non resisterà a lungo con il piede sul freno. A un certo punto non ce la farà più perché quello che sta facendo sta già iniziando a creare instabilità e a fare apparire le prime crepe nell’edificio del sistema finanziario globale.
La Fed, dal canto suo, continua imperterrita a mandare segnali di fermezza, a evocare la mitica durezza di Volcker e a coinvolgere anche le sue colombe in questa offensiva contro l’inflazione. Sbaglia la Fed? Può darsi. Quando si inizia un ciclo di rialzo dei tassi la parte più rischiosa è verso la fine, ovvero da qui a gennaio.
La Fed ha del resto commesso un errore nel 2021 mantenendo i tassi a zero contro ogni evidenza e potrebbe ora commettere l’errore opposto. Proprio per questo è rischioso comperare troppo presto.
È meglio insomma evitare di provare a essere più astuti della Fed, o più veloci. Ed è meglio non confondere quello che secondo noi sarebbe giusto fare per fermare l’inflazione senza danneggiare troppo l’economia con la politica monetaria che verrà effettivamente seguita dalle banche centrali.
Oggi è tardi per vendere. Con il rialzo dei tassi di novembre il ciclo restrittivo si avvierà al termine, con un’ultima coda in dicembre e una, più piccola, in gennaio. La vera questione, a quel punto, sarà quanto a lungo la Fed resterà con i tassi su quel livello. Il mercato scommette su un ribasso già in giugno, la Fed ribadisce tutti i giorni che nel 2023 non ci saranno ribassi.
Il 2023 non sarà necessariamente un anno negativo per i mercati. Una recessione moderata è già nei prezzi. D’altra parte, i rendimenti obbligazionari (e una parte dei dividendi azionari) sono già di tutto rispetto e rendono conveniente rimanere investiti.
Non saremmo però impazienti di comperare aggressivamente fin da subito in attesa del pivot delle banche centrali. Seguiremmo invece una di queste altre due strade. La prima, che richiede un po’ di impegno, è quella di distribuire gli acquisti, per importi uguali, lungo tutti i mesi del 2023. L’idea alla base è che il prossimo sarà comunque l’anno in cui il ciclo economico toccherà il suo punto più basso, anche se non sappiamo né il quando né il quanto di questo minimo.
La seconda strada, indicata per i più disciplinati, ma anche per i pigri, è quella di aspettare che sia la Fed a dirci quando comprare, annunciando la svolta e preparando il mercato al nuovo ciclo di ribasso dei tassi. Forse, a quel punto, non si comprerà sui minimi, ma si comprerà comunque bene.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.