Chi è appassionato di romanzi d’appendice ottocenteschi o di serie televisive contemporanee, in particolare di genere drammatico, sa che gli autori amano concludere gli episodi in un crescendo di tensione e, quando possibile, con un colpo di scena spiazzante. I maestri di retorica del Rinascimento lo chiamavano climax, gli sceneggiatori di Hollywood lo chiamano cliffhanger. L’obiettivo è quello di agganciare il pubblico, lasciandolo in uno stato di inquietudine che potrà placare solo con l’episodio successivo.
Chi è appassionato di romanzi d’appendice ottocenteschi o di serie televisive contemporanee, in particolare di genere drammatico, sa che gli autori amano concludere gli episodi in un crescendo di tensione e, quando possibile, con un colpo di scena spiazzante. I maestri di retorica del Rinascimento lo chiamavano climax, gli sceneggiatori di Hollywood lo chiamano cliffhanger. L’obiettivo è quello di agganciare il pubblico, lasciandolo in uno stato di inquietudine che potrà placare solo con l’episodio successivo.
Nella nostra epoca di binge watching televisivo, dove è possibile guardarsi tutta una serie in una notte, abbiamo imparato a non prendere troppo sul serio il climax finale di un singolo episodio perché sappiamo che subito dopo, all’inizio dell’episodio successivo, ci sarà un anticlimax. L’eroe che avevamo lasciato in grave pericolo a fine puntata viene salvato nella successiva dal sopraggiungere improvviso di forze amiche. Lo spettatore occasionale tira un sospiro di sollievo, quello professionale sbadiglia.
Come nota Chris Potts, i negoziati tra America e Cina e Brexit sono saghe di lunga durata. Gli sceneggiatori, per insaporire la narrazione, mettono qua e là delle scadenze ultimative e drammatiche, come il primo marzo scorso per il braccio di ferro tra Washington e Pechino o il prossimo 29 marzo per Brexit. Naturalmente non sono solo espedienti narrativi, ma anche e soprattutto tecniche negoziali. È come alzare la posta in una partita di poker. Può servire per vincere oppure, semplicemente, per studiare l’avversario.
Abbiamo passato gennaio e febbraio nella trepidante attesa del primo marzo. Con un accordo, Cina e Stati Uniti avrebbero dato avvio a una nuova primavera del commercio globale e a un rialzo azionario verso massimi storici. Con una rottura, al contrario, i dazi sarebbero raddoppiati e le ritorsioni sarebbero state immediate. Un mondo già fragile sarebbe precipitato nella recessione e le borse sarebbero tornate in poco tempo sui minimi di dicembre.
Bene, il primo marzo è passato e non è successo assolutamente nulla e nulla verosimilmente succederà il 29 marzo. Del resto, a ben vedere, non è vero che il commercio internazionale sia calato da quando Trump ha aperto la vertenza con la Cina, così come non è assolutamente vero che il Regno Unito abbia già patito conseguenze severe in questi tre anni seguiti al referendum del 2016. Il commercio internazionale ha infatti continuato ad aumentare, anche se più lentamente, e il Regno Unito ha solo smesso di crescere più dell’Europa e si è allineato alla sua velocità.
Ma questo nulla, tranquillizzante da una parte, dovrebbe preoccupare dall’altra. Le due vicende sono saghe secolari e il fatto di avere sdrammatizzato delle scadenze artificiali non impedisce il rilascio lento di tossine nei prossimi anni e forse decenni.
Guardiamo all’America. Molti, in Europa, sono convinti che il protezionismo sia un’idea fissa di un Trump populista e regressivo. Ancora poco più di un anno di pazienza e alla Casa Bianca si insedierà un democratico che spazzerà via il ciarpame trumpiano e riaprirà le frontiere agli scambi. Peccato che il Nafta 2, il trattato con Canada e Messico che restringe la libera circolazione delle merci in Nordamerica prevista dal trattato originario, sia bloccato in Congresso e rischi di saltare perché i democratici lo ritengono non troppo protezionista ma troppo poco.
E peccato che la stessa sorte attenda il Memorandum of Understanding che verrà firmato (se e quando) tra Stati Uniti e Cina. Tra i motivi per cui si sta andando a rilento nonostante la voglia di Trump di portare a casa qualcosa e dichiararsi vincitore c’è che il fatto che i democratici lo accuserebbero di avere svenduto l’America in caso di accordo annacquato.
Quanto a Brexit, è una pia illusione pensare che l’Europa non continuerà a boicottare per anni il Regno Unito (e ad alimentarne il risentimento antieuropeo) anche dopo un qualsiasi accordo o non accordo. Anche un accordo equilibrato richiederebbe un lungo rodaggio e il contenzioso sarebbe senza fine.
Gli accordi commerciali richiedono decenni quando c’è buona volontà da tutte le parti. Se ci sono ambizioni di primato (Cina) paure esistenziali (America) o risentimenti di ogni genere (Brexit) i tempi si allungano ulteriormente.
Lentamente e faticosamente i mercati si stanno accorgendo che Cina e Brexit sono questioni strutturali e che non bisogna fare ruotare tutto intorno a loro. Anche se intorpiditi dalla rinnovata benevolenza delle banche centrali, non più matrigne ma madri premurose e pazienti, i mercati sanno che ci vuole qualche spinta dai fondamentali, crescita e profitti, per ripartire nel rialzo verso i massimi.
E i fondamentali sono ambigui. C’è stato un rimbalzo della crescita in febbraio, ma si è scoperto che gennaio è andato ancora peggio di quanto si era pensato inizialmente. Il mondo cresce a una velocità dimezzata rispetto a un anno fa a quest’epoca, in Asia e in Europa il clima è ancora pesante e in queste condizioni è un po’ azzardato spingere i mercati verso nuovi massimi.
Detto questo, c’è un raggio di sole che può dare conforto, la produttività americana. Quasi tutti i dati macro, anche quando sono vissuti come positivi, hanno possibili effetti collaterali spiacevoli. L’inflazione che scende è buona cosa, ma abbassa il pricing power delle imprese. L’occupazione che sale è ottima cosa, ma tende a lungo andare a comprimere i margini. I tassi che scendono sono apprezzabili, ma danneggiano i margini delle banche. E così via.
L’unico dato che, visto dai mercati, quando è positivo lo è senza se e senza ma è la produttività. Quando questa sale gli effetti sono positivi sia per i bond sia per le azioni. Per i bond è positiva perché significa meno inflazione a parità di crescita, per le azioni è positiva perché significa più crescita a parità di inflazione.
Bene, da qualche mese la produttività americana è tornata a crescere. Le imprese rispondono all’aumento della domanda assumendo e pagando di più il lavoro, ma senza forzare. Se il lavoro è difficile da trovare si comincia finalmente a investire di più.
La produttività che sale è una manna dal cielo che può andare a beneficio dei produttori (retribuzioni più alte) degli azionisti (dividendi più alti) dei consumatori (prezzi più bassi) o di tutti e tre.
Se questa tendenza dovesse continuare, i nuovi massimi di borsa diverrebbero legittimi.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.