rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

CHI L’HA VISTA?

La recessione continua a evitarci

Sono ormai 28 mesi che una parte dei mercati (talvolta maggioritaria, sempre robusta) considera imminente, se non già iniziata, una recessione negli Stati Uniti. È cioè da quando la Fed ha iniziato ad alzare i tassi nel marzo 2021 che molti hanno cominciato a fasciarsi la testa senza averla ancora rotta. Certo, alcuni sono stati tratti in inganno dalla Fed stessa, che in quel periodo andava dicendo che avrebbe battuto l’inflazione anche a costo di una recessione. In realtà la Fed la recessione non l’ha mai voluta sul serio e ha fatto anzi di tutto per evitarla, soprattutto dopo la minicrisi bancaria dell’aprile 2023.

Sono ormai 28 mesi che una parte dei mercati (talvolta maggioritaria, sempre robusta) considera imminente, se non già iniziata, una recessione negli Stati Uniti. È cioè da quando la Fed ha iniziato ad alzare i tassi nel marzo 2021 che molti hanno cominciato a fasciarsi la testa senza averla ancora rotta. Certo, alcuni sono stati tratti in inganno dalla Fed stessa, che in quel periodo andava dicendo che avrebbe battuto l’inflazione anche a costo di una recessione. In realtà la Fed la recessione non l’ha mai voluta sul serio e ha fatto anzi di tutto per evitarla, soprattutto dopo la minicrisi bancaria dell’aprile 2023.

Evitare la recessione alla vigilia delle presidenziali del prossimo novembre è stato poi l’obiettivo prioritario della componente democratica della Fed per tutto quest’anno. Eppure da tre mesi la scommessa del mercato su un imminente atterraggio duro si è fatta sempre più diffusa, fino ad arrivare alla famosa invocazione di un taglio urgente extrameeting di 75 punti base nei primi giorni di agosto da parte, tra gli altri, di personaggi solitamente attenti ed equilibrati come Jeremy Siegel.

Oggi veniamo a sapere che, nel secondo trimestre conclusosi il 30 giugno, l’economia è cresciuta del 3.0 per cento. In pratica, quindi, dall’inizio del 2023 si è rimasti ampiamente al di sopra della crescita tendenziale non inflazionistica dell’1.75, che è considerata la velocità di crociera dell’economia americana. Questo sembra valere anche per il terzo trimestre in corso. Il nowcast della Fed di Atlanta, aggiornato al 26 agosto, stima infatti la crescita annualizzata di luglio e agosto al 2.0 per cento.

Ma le stranezze non si fermano qui, perché mentre i mercati obbligazionari si preparavano all’atterraggio duro, i mercati azionari hanno continuato ad attendersi, dopo due anni di crescita piuttosto modesta degli utili, una forte ripresa per la fine di quest’anno e per l’anno prossimo. Chi ha provato a conciliare queste differenze ha spesso citato il deus ex machina dell’intelligenza artificiale, capace di per sé di produrre miracoli di produttività e di fare lievitare gli utili anche in contesti macro non ottimali. Idea suggestiva, di cui però manca evidenza.

Queste dissonanze cognitive sono anche il risultato della confusione creata dai continui salti di paradigma cui abbiamo assistito quest’anno. Siamo passati dall’atterraggio morbido all’atterraggio duro, abbiamo avuto un periodo di no landing e poi abbiamo ripreso a oscillare tra morbido e duro. Abbiamo iniziato l’anno scontando sette tagli dei tassi entro dicembre, poi li abbiamo ridotti a zero e infine riportati a quattro.

Il risultato è che oggi i mercati si attendono otto tagli entro la fine del 2025 e una crescita degli utili del 15 per cento per l’anno prossimo. Tagli da atterraggio duro e utili da economia che non si sogna nemmeno di atterrare.

Che cosa aspettarci, dunque? Con una Fed che dichiara di dipendere dai dati e di essere più tattica che strategica anche gli investitori devono essere tattici. Al momento quella che vediamo è una Fed che non ha più paura dell’inflazione e che ha invece paura di indebolire troppo il mercato del lavoro ed è quindi pronta ad iniziare un lungo ciclo di ribassi dei tassi. Lo inizia con l’inflazione core ancora ampiamente sopra il 2 per cento, dichiarando in pratica che il 2 per cento è ormai un pavimento e non un obiettivo e tantomeno un tetto. È una scommessa, ma per ora la Cina esporta deflazione e l’inflazione salariale, in America e in Europa, sembra essersi calmata. I 200 punti base di tagli che il mercato si attende entro la fine del 2025 sono però un po’ troppi. Presuppongono ad esempio che il dollaro non si indebolisca oltre, che il renminbi non si rivaluti (rendendo più cari i prodotti importati dalla Cina), che le tariffe doganali che verrebbero introdotte in caso di vittoria di Trump non abbiano effetti sui prezzi, che il programma di nuove spese in caso di vittoria della Harris sia totalmente coperto da nuove tasse e non alimenti l’inflazione ecc.

Se non saranno 200 e saranno invece 150, è comunque evidente l’intenzione della Fed di fornire una put (ovvero un forte sostegno) all’economia e al mercato azionario. È una put praticamente at the money. È cioè un sostegno che è pronto ad attivarsi al bisogno immediatamente (sotto forma di taglio dei tassi), senza aspettare che la situazione si sia deteriorata. Si può discutere se una Fed pronta ad anestetizzare tutto al primo cenno di dolore sia lungimirante, ma è indiscutibile che per l’azionario una Fed così orientata blocca i ribassi lasciando aperta la possibilità di rialzi.

Questi rialzi non saranno forse ampi come il mercato si aspetta, ma sono comunque ben possibili, soprattutto per i Magnifici 493, ovvero i titoli che il mercato ha fin qui trascurato per dedicarsi ai Magnifici Sette. E sono possibili, soprattutto se l’indebolimento del dollaro dovesse continuare, anche per i mercati emergenti. Quanto ai giganti della tecnologia, i loro utili continueranno a crescere, ma a una velocità ridotta rispetto a quella, eccezionale, dell’ultimo anno, e i loro titoli perderanno temporaneamente un po’ di lustro.

Sui bond siamo al momento neutrali. Hanno corso parecchio ed è ancora possibile un po’ di bull steepening. I più entusiasti sognano un azzeramento dell’inflazione e un ritorno al decennio scorso. Meglio però essere più prudenti. Le incertezze geopolitiche e l’inclinazione dei governi a spendere per recuperare un consenso che tende a sfuggire rendono il mondo degli anni Venti strutturalmente diverso da quello degli anni Dieci. I bond lunghi possono ancora offrire nei prossimi mesi delle opportunità tattiche, ma restano intrinsecamente troppo rischiosi in questi tempi turbolenti.

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