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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

CONTRADDIZIONI

Attenzione a quello che si desidera

Il biologo francese Henri Laborit amava sostenere che le credenze che orientano la vita degli esseri umani sono un’accozzaglia disordinata di frasi fatte e di luoghi comuni senza coerenza e di scarso valore. Senza arrivare a tanto, possiamo comunque ben dire che all’interno delle visioni del mondo più diffuse ci sono spesso tensioni tra valori e credenze che dovrebbero appartenere al medesimo campo ideologico. In una fase di transizione come questa, dal neoliberalismo del quarantennio passato al nuovo New Deal che è già presente nelle nostre vite, questa confusione non può che crescere. Ne citiamo quattro esempi che spaziano tra l’ideologia progressive, quella verde, quella liberale e quella conservatrice. Sono tutti esempi che hanno conseguenze dirette sui mercati.

Il biologo francese Henri Laborit amava sostenere che le credenze che orientano la vita degli esseri umani sono un’accozzaglia disordinata di frasi fatte e di luoghi comuni senza coerenza e di scarso valore. Senza arrivare a tanto, possiamo comunque ben dire che all’interno delle visioni del mondo più diffuse ci sono spesso tensioni tra valori e credenze che dovrebbero appartenere al medesimo campo ideologico. In una fase di transizione come questa, dal neoliberalismo del quarantennio passato al nuovo New Deal che è già presente nelle nostre vite, questa confusione non può che crescere. Ne citiamo quattro esempi che spaziano tra l’ideologia progressive, quella verde, quella liberale e quella conservatrice. Sono tutti esempi che hanno conseguenze dirette sui mercati.

Il primo, in campo progressive, riguarda la tensione tra le nuove politiche del lavoro e le politiche dell’immigrazione. L’amministrazione Biden, in questi giorni, sta proponendo la sua visione di un drammatico capovolgimento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Vogliamo ritornare, ci viene detto, a quel mondo pre-1980 in cui non era la forza lavoro a vagare affannosamente alla ricerca di un impiego per il quale svendersi, ma erano al contrario le imprese a contendersi le risorse umane. Erano i tempi in cui si andavano a cercare i giovani nelle scuole ancora prima che finissero gli studi, in cui i benefit erano generosi e in cui le imprese si strappavano le persone l’una dall’altra offrendo significativi aumenti di stipendio. Erano anche tempi in cui i sindacati erano forti, grazie al pieno impiego, e in cui questa forza si traduceva in una difesa della dignità del lavoro.

Al tempo stesso l’amministrazione Biden ha riaperto le frontiere all’immigrazione, mentre da Silicon Valley si preme affinché le porte vengano aperte ancora di più. In questa scelta c’è un insieme di pulsioni umanitarie, di ideologia (ponti, non muri), di calcolo politico (gli immigrati votano per chi li lascia entrare) e di calcolo economico (gli immigrati abbassano il costo del lavoro). Proprio quest’ultimo aspetto è però in contraddizione con l’obiettivo di un mercato del lavoro più rigido e di retribuzioni più elevate. Quello che ne esce in pratica, in questo momento, è un quadro contorto di porte semiaperte e di campi di accoglienza strapieni da una parte e di funzionari e legislatori americani che girano il Centroamerica per indurlo a trattenere in tutti i modi gli aspiranti emigranti. La questione diventerà ancora più acuta dopo la fine della pandemia, che finora ha frenato i migranti e offerto un motivo agli Stati Uniti per trattenerli alla frontiera.

Una seconda tensione, questa volta in campo verde, è quella tra transizione energetica e terzomondismo. Da una parte si desidera che la riconversione, per essere accettata dal pubblico, non abbia un costo troppo elevato e si insiste, per provarlo, sul fatto che il costo delle rinnovabili continuerà a scendere. Dall’altra si appoggiano i paesi emergenti che intendono riappropriarsi delle loro risorse e tagliare i profitti delle multinazionali con l’obiettivo di finanziare spese sociali.

Sappiamo che il rame giocherà una parte importantissima nella transizione energetica e sappiamo anche che i maggiori produttori, accanto allo Zambia e all’Indonesia, sono il Cile e il Perù. Questi ultimi due paesi sono nel pieno del cambiamento. Il Cile ha appena eletto un’assemblea costituente fortemente orientata a sinistra e il Perù andrà fra poco alle urne con un favorito, Pedro Castillo, che si dichiara ammiratore di Chávez e Maduro. La camera bassa cilena, dal canto suo, ha approvato in queste ore l’innalzamento delle royalties sul rame, portandole dal 40 al 75 per cento in caso di ulteriori aumenti di prezzo.

Quando le royalties aumentano, una parte del costo viene normalmente assorbita dalle compagnie minerarie, ma un’altra parte si scarica inevitabilmente sul prezzo finale. L’aspetto più notevole è che, storicamente, la maggiore assertività dei paesi produttori si manifesta dopo anni di ciclo rialzista delle materie prime. Questa volta, invece, la vediamo crescere già a inizio ciclo e la vediamo estendersi, una contraddizione nella contraddizione, anche ai produttori di greggio, ovvero di una materia prima teoricamente condannata a morte.

Una terza tensione, in campo liberale, la vediamo tra il valore del multilateralismo e quello della transizione energetica. L’Unione Europea si proclama paladina del multilateralismo e del libero mercato, ma lavora a gran ritmo per introdurre unilateralmente una tassa di ingresso sui prodotti che contengono energie sporche. Ecco allora il protezionismo cacciato dalla porta rientrare dalla finestra dipinto di verde con conseguenze inflazionistiche evidenti.

Una quarta tensione, in un campo che potremmo definire ortodosso-conservatore, è quella presente in una componente dei mercati finanziari che in questo momento giudica le banche centrali dietro la curva e i governi fuori controllo nelle loro politiche di spesa ed è però seduta su una montagna di titoli obbligazionari e azionari. Sono i rialzisti loro malgrado e sarebbero certamente tra le vittime del ribasso che colpirebbe i mercati se governi e banche centrali seguissero le loro invocazioni ad alzare i tassi e a tornare a politiche di bilancio più ortodosse.

Che conclusioni trarre da queste considerazioni? Tra le tante possibili una, di carattere generale, è che per qualche tempo ci porteremo dietro, in questo nuovo mondo, le tensioni tra il paradigma precedente e quello nuovo. Ne darà plastica evidenza l’Europa, dibattuta tra l’esigenza di imitare l’America nelle politiche di stimolo alla domanda (il Recovery Fund) e la voglia di imporre condizioni offertiste per concedere gli stimoli.

Una seconda tensione, per citare Larry Fink di BlackRock (un appassionato democratico e grande fautore della finanza verde), è che la transizione energetica sarà inflazionistica. Se aggiungiamo questa spinta micro alle spinte macro delle politiche fiscali e monetarie, possiamo dire che l’inflazione strutturale (non quella transitoria da disordine di questa fase) sarà un prezzo che come cittadini potremo anche accettare, ma che come investitori alzerà l’asticella del rendimento reale e aumenterà la fatica per conseguirlo.

Dalla Fed comincia ad arrivare qualche segnale di attenzione verso i rischi di surriscaldamento. L’ultima cosa che una banca centrale può desiderare in questo momento è di tarpare le ali alla ripresa, ma mostrare al mercato di non essersi bendati gli occhi e accennare a qualche cautissima misura di ritorno alla normalità può perfino fare bene e aiutare ad assorbire l’inevitabile tapering senza troppi traumi. Le prime reazioni dei mercati sono incoraggianti.

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