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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

DOPO LA RIPRESA

Qualche ipotesi sulla nuova normalità

Il 15 ottobre 1929 Irving Fisher, uno dei più grandi economisti del secolo scorso, consegnò al New York Times un articolo che conteneva una frase che gli sarebbe costata la damnatio memoriae, almeno per il grande pubblico. I mercati azionari, scrisse, hanno raggiunto quello che sembra essere un plateau permanentemente elevato. In effetti la borsa, dopo la grande corsa iniziata dopo la fine della depressione del 1920-21, aveva toccato il 3 settembre 1929 il massimo storico e si era poi stabilizzata poco sotto quel livello in una serie di sedute relativamente tranquille.

Il 15 ottobre 1929 Irving Fisher, uno dei più grandi economisti del secolo scorso, consegnò al New York Times un articolo che conteneva una frase che gli sarebbe costata la damnatio memoriae, almeno per il grande pubblico. I mercati azionari, scrisse, hanno raggiunto quello che sembra essere un plateau permanentemente elevato. In effetti la borsa, dopo la grande corsa iniziata dopo la fine della depressione del 1920-21, aveva toccato il 3 settembre 1929 il massimo storico e si era poi stabilizzata poco sotto quel livello in una serie di sedute relativamente tranquille.

In realtà il plateau non durò nemmeno due mesi. Chi avesse seguito l’idea di Fisher avrebbe dovuto aspettare un quarto di secolo per rivedere l’indice al livello del 3 settembre. Per effetto di questa terribile esperienza, da quel momento tra investitori e analisti sopravvissero solo due categorie, quella dei rialzisti e quella dei ribassisti. I rarissimi teorizzatori di mercati stabili che nei decenni hanno riprovato a proporre l’idea di un plateau secolare (ricordiamo un paio di casi verso la fine del ciclo del decennio scorso) non hanno avuto più fortuna di Fisher.

Una spiegazione del fenomeno la dette negli anni Novanta Hyman Minsky. Quando vedono crescita stabile e inflazione sotto controllo, scrisse, le borse non rimangono a loro volta stabili, ma salgono. La salita alimenta ulteriore speculazione e si inizia a comprare a leva. Tutto sembra perfetto, ma sul più bello arriva puntualmente un momento (che da allora chiamiamo il Minsky moment) in cui la bolla non riesce più ad alimentarsi e scoppia. Scoppiando, non si limita a colpire gli investitori, ma compromette anche la stabilità del ciclo economico e provoca una recessione.
Da quando Minsky scrisse queste cose, come abbiamo visto nel 2008 e nel 2020, la stabilità di medio termine di economie e borsa è ancora più precaria perché la finanziarizzazione ha accresciuto ulteriormente la possibilità di retroazione negativa delle cadute di borsa sull’economia.

Nei giorni scorsi due prese di posizione, in apparente contrasto tra loro, hanno colpito l’attenzione. La prima è di David Bianco, già ottimo strategist azionario con grande e certosina capacità analitica e oggi gestore. Bianco, che è stato solidamente rialzista per tutto il decennio scorso, vede ora anni di crescita modesta per le borse. Gli utili infatti cresceranno lentamente e i multipli inizieranno a sentire la pressione dei tassi, che presto o tardi si farà sentire.

La seconda è il discorso d’addio alla Bank of England di Andy Haldane, che per trent’anni è stato una delle sue teste più brillanti. Nella sua godibilissima ricostruzione di questi trent’anni Haldane tesse le lodi della politica di inflation targeting di cui è stato in Inghilterra il principale architetto, ma cambia bruscamente tono quando passa ad esaminare i rischi che il vistoso allentamento di questa politica comporta per la prossima fase.

Haldane parla nel giorno in cui l’inflazione inglese sale bruscamente dal due al tre per cento e ritiene verosimile che per fine anno si avvicini al quattro. A quel punto, dice, non c’è solo il rischio ma la quasi certezza che quella dell’inflazione elevata diventerà la narrazione dominante e che le pressioni lungo tutta la curva dei rendimenti provocheranno un loro rialzo. A quel punto la politica monetaria vivrà un Minsky moment e sarà costretta a ripristinare la sua credibilità con misure restrittive più incisive di quanto non si aspettino oggi i mercati.
È la versione inglese dell’idea di Summers e Furman, con la differenza che Summers, per prudenza anche politica, la presenta come rischio, mentre Haldane, con la libertà che gli è concessa dall’essere in uscita dalla Bank of England, la ritiene scenario centrale.

Che dire? Sull’inflazione il dibattito è più aperto che mai. Il dato dei giorni scorsi sul CPI americano, con il primo cenno di ritracciamento di quest’anno, ha dato apparentemente ragione al partito dell’inflazione transitoria. Gli oppositori hanno però fatto notare che a scendere sono stati solo i prezzi legati alla riapertura, come quello de biglietti aerei, per effetto della variante delta. La mediana dei prezzi, tuttavia, ha registrato una significativa ulteriore accelerazione per cui è legittimo supporre che, quando l’ondata della delta sarà rifluita, il dato complessivo riprenderà a crescere.

Che le tensioni sui prezzi possano farsi strutturali lo vediamo dai metalli industriali e dal forte rialzo del gas naturale, del carbone e dell’uranio (che risentono di una transizione energetica appena agli inizi) e dai semiconduttori la cui carenza è destinata a prolungarsi almeno a tutto l’anno prossimo. Metalli industriali, gas e semiconduttori non sono tre voci tra le tante che compongono gli indici dei prezzi perché si ripercuotono velocemente su tutti gli altri.

Che conclusioni trarre? Negli anni Settanta i mercati hanno aspettato due anni prima di rendersi conto che l’inflazione non era transitoria. Anche questa volta sembra esserci ancora un margine di pazienza di almeno altri sei mesi. Le banche centrali, inoltre, stanno facendo di tutto per presentare le correzioni di tiro della politica monetaria nella maniera più morbida possibile, prevenendo come minimo quel di più di volatilità che storicamente si registra nei momenti in cui le misure espansive vengono ritirate. Inoltre, per un certo numero di comparti, l’inflazione sarà davvero transitoria.

La buona notizia è che la crescita, come evidenziato dai primi dati relativi a settembre, sta di nuovo accelerando. La pandemia, ora in fase di riflusso, sarà decisiva non solo per la domanda finale di beni e servizi ma anche per l’inflazione salariale. Se è vero (come è vero) che una parte consistente dei disoccupati sta a casa per paura del Covid, il venir meno dell’epidemia porterà di nuovo milioni di persone sul mercato del lavoro, che le sta aspettando con ansia ed è pronto ad accoglierle. A quel punto l’inflazione salariale avrà meno ragioni per salire. Un’inflazione salariale contenuta che si unisse alla ripresa dei consumi trainata dai nuovi occupati creerebbe uno scenario virtuoso e rassicurerebbe i mercati.

Quanto alla nuova normalità del dopo-Covid è probabile che per qualche anno avremo, per effetto delle politiche espansive, più crescita e più inflazione che nel decennio scorso, ma tutto nell’ordine di un punto percentuale, non di più.

La transizione al dopo-Covid (se il virus si ritirerà gentilmente dalla scena) richiederà ancora almeno la prima metà del 2022. Fino ad allora le banche centrali saranno ben attente a non provocare mal di pancia troppo seri ai mercati.
Storicamente, l’inizio della normalizzazione monetaria provoca sempre una reazione avversa delle borse, ma questa reazione lascia il passo, dopo qualche settimana, a una continuazione del rialzo.

L’idea generale rimane quella di mantenere le posizioni, sapendo però che una parte significativa del futuro prossimo è in balia della lotteria delle mutazioni del virus. Restare investiti, quindi, ma accertarsi di avere posizioni sostenibili.

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