Negli ultimi due decenni la quota del Pil americano sul Pil mondiale non ha fatto che scendere. Nonostante la rivalutazione del dollaro, questa quota è oggi del 25 per cento. Il peso della borsa americana sugli indici globali, dal canto suo, ha invece continuato a crescere ed è oggi, sull’MSCI World, superiore al 60 per cento.
Negli ultimi due decenni la quota del Pil americano sul Pil mondiale non ha fatto che scendere. Nonostante la rivalutazione del dollaro, questa quota è oggi del 25 per cento. Il peso della borsa americana sugli indici globali, dal canto suo, ha invece continuato a crescere ed è oggi, sull’MSCI World, superiore al 60 per cento.
All’interno della borsa americana, d’altra parte, ha continuato a crescere il peso della tecnologia e, all’interno di questo settore, è diventato decisivo il peso dell’aristocrazia dei Magnifici Sette.
Che l’America abbia portato via peso negli indici all’Europa è comprensibile. Dal 2000 a oggi il Pil americano è cresciuto a una velocità doppia rispetto al Pil europeo. La distanza tra le due velocità si ridurrà nei prossimi anni, ma la tendenza rimarrà comunque favorevole all’America.
Che però si sia ridotto il peso dell’Asia negli indici globali in una fase storica in cui il baricentro dell’economia globale ha continuato a spostarsi verso di essa e in cui i tassi di crescita di Cina e India sono stati doppi rispetto a quelli americani ha molto meno senso.
Certo, l’America ha dato fino ad oggi grandi soddisfazioni a chi ha creduto nel dollaro, nei Treasuries (almeno fino a tre anni fa) e in Wall Street e Silicon Valley. Anche oggi l’America rimane un paese in ottima crescita e con un primato decisivo in alcuni settori strategicamente importanti per i prossimi decenni.
È però giunto il momento di tornare a studiare tutto quello che in questi ultimi anni è stato evitato, trascurato o abbandonato per sempre (mai più in Cina!) non solo nel mondo, ma anche all’interno degli stessi Stati Uniti.
Alcuni venerati investitori, da Stanley Druckenmiller e David Tepper a Michael Burry (il Grande Short del 2008), già dal primo trimestre di quest’anno hanno ridotto le loro posizioni sui colossi della tecnologia americana e si sono orientati sulle società tradizionali medie e piccole della borsa americana o sulla tecnologia cinese. Warren Buffett ormai da anni indirizza i nuovi investimenti soprattutto in Giappone.
Molti fondi real money, che hanno tradizionalmente più vincoli e minore propensione al rischio geopolitico rispetto ai fondi hedge e ai grandi investitori individuali, pur continuando a restare fuori dal mercato cinese si sono spostati sulle borse europee. Nelle ultime settimane, infine, abbiamo assistito a un ritorno d’interesse per il mondo delle utilities. In particolare, il settore elettrico viene visto come un’alternativa a basso costo e a basso rischio rispetto alle società dell’Intelligenza Artificiale, che nel 2030 consumeranno l’8 per cento dell’elettricità prodotta nei paesi avanzati.
Ultimo arrivato nelle discussioni recenti è l’intoccabile per antonomasia, l’immobiliare commerciale americano, duramente colpito dal lavoro da casa che ha ridotto la domanda di uffici e dall’espansione del commercio online, che è avvenuta a spese dei grandi centri commerciali. Qui probabilmente è ancora presto per comprare in modo generalizzato ma non è certo presto per mettersi a seguire e studiare un settore che non tornerà per qualche anno alle glorie del decennio scorso, ma che ai prezzi stracciati di oggi offre all’occhio esperto opportunità, sia in forma reale di edifici sia in forma finanziarizzata di distressed debt o di equity.
Non è solo nell’azionario che vale la pena guardarsi in giro. Anche nell’obbligazionario molte cose sono cambiate in questi anni e i bond interni in valuta locale dei migliori tra i paesi emergenti hanno offerto ritorni superiori a quelli dei titoli del Tesoro americani e con meno volatilità.
La volatilità dei Treasuries sta del resto diventando strutturale. Il passaggio dal paradigma disinflazionistico del decennio scorso a quello reflazionistico dei tempi nostri continua a tradursi in grandi e rapide oscillazioni di prezzo. C’è nel mercato una sorta di radicalizzazione tra due partiti. Da una parte, quelli che vedono negli ultimi quattro anni un’anomalia che sta già rientrando e che quindi offrirà grandi opportunità a chi si posiziona sul tasso fisso a lungo. Dall’altra c’è chi crede nel formarsi di una nuova normalità fatta, per citare il Jamie Dimon di oggi, di grandi disavanzi pubblici, di riarmo, di guerre commerciali, di transizione energetica e di grandi infrastrutture.
Oggi il decennale americano al 4.35 offre ancora un buon rendimento, ma con un’inflazione al 3.5 (come calcolata da Jason Furman come media delle medie a 3, a 6 e a 12 mesi) non offre grandi opportunità di capital gain se non in uno scenario di significativo rallentamento.
È possibile questo rallentamento? I segnali, per ora, sono contraddittori. Sono due mesi che i dati macro americani sorprendono in senso negativo, ma l’economia rimane comunque strutturalmente sostenuta da condizioni finanziarie favorevoli (borsa e bond forti) e dalla consapevolezza che la Fed non esiterà a tagliare i tassi se al passaggio dal caldo al tiepido che stiamo vedendo seguirà qualche segnale effettivo di freddo.
In pratica, l’investimento migliore in termini di rapporto tra rischio e rendimento rimane probabilmente il due anni acquistato a leva (rende il 4.78) accompagnato da un’esposizione neutrale di borsa con sovrappeso interno sui titoli difensivi e un’ampia diversificazione su Europa e Asia.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.