Come un animale che si muove nervoso in una gabbia, i mercati oscillano da alcuni mesi in un range limitato alternando nevroticamente paure e speranze sull’inflazione e sulla crescita. Le variazioni d’umore sono brusche e continue, ma non durano a lungo.
Come un animale che si muove nervoso in una gabbia, i mercati oscillano da alcuni mesi in un range limitato alternando nevroticamente paure e speranze sull’inflazione e sulla crescita. Le variazioni d’umore sono brusche e continue, ma non durano a lungo.
Un giorno si pensa che la crescita dell’economia globale sia una certezza inattaccabile, il giorno dopo si paventa una recessione generalizzata e imminente. La mattina si ritiene che il mercato del lavoro resterà surriscaldato per tutto l’orizzonte prevedibile, il pomeriggio si pensa che stia sgretolandosi sotto la superficie. Lo stesso per l’inflazione, vista in certi momenti come invincibile e poco dopo come sostanzialmente già vinta. Quanto alle crisi bancarie, si alternano momenti in cui si pensa siano state solo uno spiacevole episodio ad altri in cui si ritiene che ci accompagneranno, quanto meno in forma di credit crunch, ancora per anni.
In un certo senso questa alternanza di stati d’animo è un segno del relativo successo delle politiche di cauto raffreddamento del ciclo economico perseguite da governi e banche centrali. Dopo le ubriacature espansive del periodo compreso tra l’estate del 2020 e la prima parte del 2022, i policy maker hanno adottato una linea mediana. Si cerca di tornare alla normalità, ma senza strappi. È una linea ambiziosa, che richiede pazienza ed è tecnicamente impegnativa, ma è giocoforza seguirla se si vogliono evitare recessioni devastanti e crisi del debito da una parte o un’inflazione che mette radici dall’altra.
Nel seguire questa rotta tra scogli e iceberg è inevitabile urtare ogni tanto un ostacolo, ma l’importante è avere una rotta e seguirla. Il raffreddamento di un’economia ancora forte (quasi il 4 per cento di crescita globale reale annualizzata nel primo trimestre appena concluso) comporta del resto una compresenza di dati ancora forti in assoluto e di una tendenza negativa. È quindi comprensibile che i mercati facciano fatica a farsi un’idea chiara.
Prendiamo ad esempio gli ultimi dati sull’occupazione negli Stati Uniti. Le offerte di lavoro stanno calando. C’erano 12 milioni di posti disponibili (a fronte di 6 milioni di disoccupati) un anno fa a quest’epoca, ora sono 9.9 milioni. A uno sguardo superficiale può sembrare un calo serio, ma considerando che i posti disponibili negli anni pre-Covid hanno oscillato tra i 3 e i 7 milioni si può ben vedere quanto il mercato del lavoro sia ancora forte. Lo stesso si può dire per i sussidi di disoccupazione, in crescita ma ancora bassi in assoluto.
Il mercato del lavoro in moderato raffreddamento toglierà forza all’inflazione salariale. Me non è solo su questo piano che l’inflazione perderà slancio, assestandosi nel medio termine intorno al 3 per cento.
Si è parlato molto, in questi due anni, di greenflation e di greedflation. La prima, l’inflazione verde, sarebbe il risultato delle scelte di politica energetica degli ultimi anni. La seconda, l’inflazione da avidità, sarebbe dovuta a una particolare tendenza delle imprese ad approfittare della confusione di questa fase instabile per aumentare in modo ingiustificato il prezzo dei loro prodotti.
Sull’inflazione verde, si è detto giustamente che l’elevato costo dell’energia è il risultato di politiche che hanno disincentivato gli investimenti nei combustibili fossili e spinto su una transizione verde particolarmente costosa. Questo è stato vero fino alla guerra in Ucraina, ma da un anno alcune cose stanno cambiando.
In silenzio, cercando di non dare troppo nell’occhio, gli investimenti in combustibili fossili sono ripresi. Miniere di carbone sono state riaperte e la produzione globale ha superato per la prima volta gli 8 miliardi di tonnellate nel 2022 (e crescerà ancora nel 2023). Quanto al petrolio, la produzione domestica americana è cresciuta nel 2022 di un milione di barili e quella russa, nonostante le sanzioni, è rimasta quasi invariata. Il Brasile punta ora ad aumentare la sua produzione di un milione di barili, mentre la Guyana si appresta a diventare in pochi anni, con massicci investimenti americani, il quarto produttore offshore mondiale.
A fronte di un aumento dell’offerta, la domanda globale di energia è rimasta stabile (la contrazione europea ha compensato la ripresa asiatica e americana), al punto da indurre l’Opec a ridurre la sua produzione per sostenere il prezzo del greggio. L’accelerazione dell’economia cinese nei prossimi mesi sarà bilanciata dal rallentamento americano. Salvo sorprese, il comparto dell’energia non produrrà particolari tensioni inflazionistiche da qui alla fine dell’anno.
Quanto alla greedflation, non abbiamo mai condiviso il moralismo di chi accusa le imprese di difendere i loro margini alzando i prezzi. Le imprese non sono generose quando abbassano i prezzi e non sono malvagie quando li alzano. Da agenti programmati per massimizzare i profitti, è razionale che approfittino degli squilibri tra domanda e offerta per alzare i prezzi quando la domanda è forte. Le politiche volte a contenere la domanda e a stimolare l’offerta (come abbiamo visto nel caso delle energie fossili) riporteranno alla normalità i margini, contribuendo anche per questa via a contenere i prezzi.
Sia chiaro, non torneremo alla deflazione strisciante del decennio scorso. La guerra (o anche solo la preparazione alla guerra) è strutturalmente inflazionistica non solo per via delle spese dirette in riarmo, ma anche per il protezionismo e l’incentivo a formare o mantenere oligopoli che tradizionalmente accompagnano le economie di guerra.
Sul piano congiunturale, tuttavia, le politiche che si sono impostate in America e in Europa possono ragionevolmente fare sperare, almeno per il resto dell’anno, in un abbassamento delle pressioni inflazionistiche e in un rallentamento economico limitato a un paio di trimestri con Pil leggermente negativo.
La dissonanza tra una Fed che continua a proclamare la sua volontà di non abbassare i tassi per quest’anno e i mercati che scontano invece tre ribassi verrà probabilmente risolta con un compromesso non necessariamente traumatico (magari con un taglio a dicembre).
Venendo ai mercati, si fa notare da più parti che le borse sono ferme da molti mesi e che prima o poi dovranno uscire dal loro range di oscillazione. È in effetti possibile che ne escano al rialzo in caso di ripresa (già nell’aria) della discesa dell’inflazione. Più avanti nell’anno, tuttavia, i mercati dovranno fare i conti con le pressioni al ribasso sugli utili e con il rallentamento della crescita. Alla fine, il 2023 può concludersi senza grandi variazioni. L’importante è che si creino le condizioni per un 2024 di ripresa.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.