rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL BILANCINO DELL’ECONOMISTA

Economie, mercati e primato della politica

Nota giustamente Anatole Kaletsky che tra le previsioni del Fondo Monetario sull’economia globale per quest’anno e il prossimo (pubblicate in ottobre) e quelle dell’Ocse (pubblicate in novembre) non c’è praticamente nessuna differenza. C’è in entrambe un leggero rallentamento della crescita americana e cinese, compensato da un’accelerazione in Europa. C’è anche il ritorno dell’inflazione al 2 per cento esatto per tutti, Giappone incluso.

Nota giustamente Anatole Kaletsky che tra le previsioni del Fondo Monetario sull’economia globale per quest’anno e il prossimo (pubblicate in ottobre) e quelle dell’Ocse (pubblicate in novembre) non c’è praticamente nessuna differenza. C’è in entrambe un leggero rallentamento della crescita americana e cinese, compensato da un’accelerazione in Europa. C’è anche il ritorno dell’inflazione al 2 per cento esatto per tutti, Giappone incluso.

Eppure, tra ottobre e novembre, ci sono stati eventi politici di grande portata, perfino storica nel caso delle elezioni americane, e comunque carichi di conseguenze, come nel caso della caduta dei governi di Francia e Germania. C’è stata poi la svolta cinese sulla politica monetaria e fiscale, ora decisamente orientata in senso espansivo.

Il fatto che le grandi istituzioni internazionali (con effetti a cascata che arrivano fino agli economisti di mercato) siano apparentemente insensibili ai cambiamenti politici quando si tratta di fare previsioni ha varie spiegazioni.

Alle previsioni ufficiali si arriva attraverso un negoziato con le autorità nazionali, che nel caso delle stime più recenti sono espresse dai governi uscenti ancora in carica, non dai nuovi vincitori. In secondo luogo, c’è sempre una differenza tra quanto prospettato dai vincitori in campagna elettorale e quello che effettivamente riusciranno a fare. La quantificazione preventiva degli effetti del loro programma è un tema da campagna elettorale, che evapora come neve al sole nel momento in cui un nuovo governo va effettivamente al potere.

La prudenza delle istituzioni come l’IMF o l’Ocse può però anche essere dovuta al prevalere della logica del bilancino dell’economista, che vede tutte le variabili come macroeconomiche e non coglie, per costruzione, i grandi salti della storia e, in particolare, quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Si tratta del passaggio dall’età della globalizzazione a quella dei capitalismi nazionali, come li chiama Russell Napier, o, come la definisce Michael Every, all’età della Grand Macro Strategy. Politica, economia e sicurezza vengono tutte inquadrate in un solo disegno e subordinate all’interesse nazionale.

Al mercato e all’autonomia delle strutture tecnocratiche come le banche centrali, intesi come siamo stati abituati a intenderli nei quarant’anni passati, resta sempre meno spazio. I mercati e il risparmio vengono nazionalizzati, non nel senso dell’esproprio, ma attraverso vincoli e controlli che li spingono non verso l’allocazione ottimale cara agli economisti ma verso le priorità politiche. Le banche centrali, dal canto loro, tornano a essere prolungamenti del Tesoro.

Il mercato ha spazio quando c’è una pax controllata da un egemone. Ne ha molto meno quando il conflitto diventa la nota dominante. Oggi di conflitti ne abbiamo due, il primo tra Occidente e nuove potenze emergenti e il secondo, dentro l’Occidente, tra ortodossia mainstream ed eterodossia.

Dove c’è conflitto, di solito, c’è crescita, almeno finché il conflitto non entra nella fase distruttiva della guerra. C’è crescita perché America e Cina non possono rimanere indietro nemmeno un metro nella corsa alle tecnologie di potenza (che richiedono dietro di sé un apparato industriale in salute). E c’è crescita perché nel conflitto tra ortodossia ed eterodossia le politiche fiscali e monetarie, chiunque sia in quel momento al governo, sono sempre espansive. E come l’Occidente adotta gradualmente stilemi cinesi (industrial policy, sistema dei crediti sociali), l’ortodossia adotta le politiche espansive dell’eterodossia (Macron in Francia, Biden in America). Esattamente come Roosevelt, che con il New Deal prese alcuni spunti dall’Unione Sovietica.

Questa corsa alla crescita a tutti i costi, che prima o poi vedremo adottata anche in Germania e in Europa, ha fatto dire a Charles Gave che stiamo tutti imboccando la Via Turca. Ampi disavanzi fiscali permanenti e monetizzati, crescita a tappe forzate, pieno impiego, tassi artificiosamente bassi. Il prezzo, lo si è visto in Turchia, lo pagano il cambio e i bond. L’azionario, in quanto bene reale, tiene le sue posizioni e trae beneficio dalla crescita.

Queste ipotesi sono utili, perché ci svegliano dal torpore dei quarant’anni passati. Svegliano in particolare chi continua a pensare che l’esplosione monetaria e fiscale del 2020-2022 è stata una una tantum legata al Covid e che ora rientreremo nella normalità. No, la nuova normalità è fatta di inflazione comunque sopra gli obiettivi nei tempi normali e di fiammate a ogni emergenza. È fatta di disavanzi fiscali elevati in tempi normali e abnormi a ogni emergenza.

Questo quadro ha però dei fattori di mitigazione. Il primo è che nei conflitti è essenziale la tenuta del fronte interno. Va bene reflazionare e alzare barriere protezionistiche per reindustrializzare e mantenere la superiorità nei confronti della Cina, ma non si può esagerare. L’inflazione è subita con rassegnazione in tempo di guerra, ma in tempo di pace costa cara al governo in carica. Lo stesso vale per la Cina che, incentivando ora i consumi per non alimentare malessere, diluisce la sua strategia che puntava tutto sugli investimenti.

Il secondo fattore di mitigazione è che l’eterodossia, fiscalmente, non si è dimostrata fiscalmente più espansiva dell’ortodossia. Trump non sarà restrittivo rispetto a Biden, ma non sarà nemmeno più espansivo.

Prima del 20 gennaio possiamo solo esercitarci in ipotesi sui prossimi anni. La stessa amministrazione Trump non ha ancora deciso come procedere e manda ballon d’essai su immigrazione, dazi e geopolitica.

I mercati, nell’attesa e nel dubbio, seguono tre direttrici. Preoccupazione sui bond lunghi, azionario in equilibrio tra tassi a lungo in aumento e prospettive di crescita positive, outperformance dell’Europa. Sono tre direttrici di default, ma dopo il 20 gennaio verranno comunque sottoposte a verifica anche loro.

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