rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL DIRE E IL FARE

Meglio pragmatici che dogmatici

Ci sono un dogmatismo buono, che è meglio chiamare aderenza a principi intelligenti, e un dogmatismo cattivo, ovvero l’adesione a tutti i costi a idee non sempre giuste o decisamente sbagliate. Ci sono poi un pragmatismo cattivo, che è il privilegiare la sopravvivenza immediata a scapito del lungo termine, e un pragmatismo buono, che è adattarsi alle circostanze senza perdere di vista gli obiettivi strategici.

Ci sono un dogmatismo buono, che è meglio chiamare aderenza a principi intelligenti, e un dogmatismo cattivo, ovvero l’adesione a tutti i costi a idee non sempre giuste o decisamente sbagliate. Ci sono poi un pragmatismo cattivo, che è il privilegiare la sopravvivenza immediata a scapito del lungo termine, e un pragmatismo buono, che è adattarsi alle circostanze senza perdere di vista gli obiettivi strategici.

Se consideriamo le politiche fiscali e le politiche sull’energia, due tra i maggiori pilastri su cui si reggono il presente e il futuro delle economie, vediamo differenze notevoli tra Stati Uniti, Europa e Cina sia nella qualità dei loro principi sia nella coerenza e nell’efficacia nell’applicarli.

La Cina di Deng è stata un capolavoro di conciliazione tra una strategia che rimaneva socialista e un pragmatismo spregiudicato nel compimento della prima parte di questo percorso. L’appello ad arricchirsi di Deng è stato del resto ben diverso da quello di Eltsin e i risultati, alla fine del Novecento, erano già ben visibili. Una Russia impoverita, corrotta e debole da una parte, una Cina in forte crescita e ben attenta a tenersi insieme e a mantenersi indipendente dall’altra.

Con Xi, che ama collocarsi a metà strada tra Mao e Deng, si è ristabilito in modo netto il primato della strategia. Una declinazione di questa strategia a livello di politica economica è che il settore privato deve cercare di mantenersi in piedi da solo e può essere aiutato, se occorre, con politiche di stimolo all’offerta, ma non con stimoli alla domanda. Il risultato positivo è la creazione di comparti industriali molto competitivi, quello negativo è la tendenza alla sovraproduzione. Rispetto alle famiglie, la netta opposizione al welfarismo ha portato a un eccesso di risparmio privato e a una carenza di domanda interna.

Le misure degli ultimi giorni, in particolare i sussidi una tantum per le famiglie più povere, mostrano un nuovo pragmatismo positivo. Probabilmente non saranno sufficienti, ma vanno salutate come l’apertura di un varco in un muro che stava diventando dogmatico,

Quanto all’energia, la Cina ha scelto di sviluppare in parallelo tutte le fonti, fossili, nucleari e rinnovabili. Il risultato è una formidabile capacità produttiva unita a un miglioramento significativo dell’ambiente. Oggi a Pechino si può di nuovo respirare.

Gli Stati Uniti hanno come bussola strategica il mantenimento del loro primato globale. La politica fiscale troppo espansiva può portare a lungo termine a un indebolimento, ma il debito viene sgonfiato periodicamente con ondate circoscritte di inflazione e approfitta della disponibilità del resto del mondo a finanziarlo.

Il pragmatismo di successo americano è poi particolarmente evidente nell’energia. Anche qui, come in Cina, via libera a tutto, fossili, rinnovabili e, di nuovo, nucleare. Quanto alle auto elettriche, l’amministrazione Biden si è guardata bene da imporne la produzione esclusiva a partire da una certa data futura e si è limitata a disporre che il settore governativo adotti l’elettrico dal 2035. In ogni caso, poiché oggi il gas è diventato più conveniente del carbone, l’America è più pulita di prima nonostante la produzione di fossili ai massimi storici.

L’Europa ha una strategia ben definita fatta di bilanci pubblici in ordine e decarbonizzazione accelerata. L’implementazione della strategia è però caotica e incoerente. La Germania ha il disavanzo zero in costituzione, salvo inventarsi spese notevoli fuori bilancio che poi la Corte costituzionale rimette puntualmente in discussione. La Francia di Macron, fattosi eleggere nel 2017 con la promessa di riportare i conti in ordine, ha avuto un disavanzo del 5.5 nel 2023 e viaggia sopra il 6 per quest’anno. E mentre l’Italia, con le correzioni recenti, ha un debito al 134, la Francia, che con Sarkozy e Moscovici si univa nel decennio scorso alla Germania nel richiamarci severamente all’austerità, è sulla strada del 130 già nel 2030. Il risultato è un’eurozona che, dopo il Covid, non riesce a essere espansiva e non riesce nemmeno a riportare i conti in ordine.

Quanto all’energia, il marziano tornato oggi in Europa dopo cinque anni la trova oggi più inquinata dell’ultima volta, perché il carbone ha sostituito il nucleare tedesco. La trova anche meno industrializzata, anche perché paga il gas il quadruplo dell’America e l’elettricità il triplo di Cina e Stati Uniti. La nuova Commissione è del resto ancora più antinucleare della precedente, anche perché i Verdi tedeschi sono diventati indispensabili per tenerla in piedi.

Pesa poi sul futuro europeo il possibile declino strategico dell’auto, stretta tra il divieto di produrre veicoli con motore a combustione interna dal 2035 (2030 in UK), la declinante domanda di veicoli elettrici, la fortissima concorrenza cinese e le multe europee ai produttori se non riescono a vendere auto elettriche. Se a questo aggiungiamo lo smantellamento accelerato del settore petrolifero del Regno Unito annunciato da Starmer, il quadro che emerge è quello di una deindustrializzazione accelerata.

Questo rapido giro d’orizzonte dovrebbe portare l’investitore a privilegiare strategicamente America e Cina nelle sue scelte (la Cina ha anche valutazioni molto a buon mercato). Bisogna però stare attenti a fare derivare meccanicamente l’allocazione dai fondamentali e dalla qualità della governance. La borsa europea tende a seguire Wall Street molto più di quella cinese (che infatti quest’anno è scesa). La Cina, d’altra parte, potrebbe un giorno essere oggetto di nostre sanzioni finanziarie e diventare per noi non investibile.

Venendo al breve termine, Wall Street è da acquistare su debolezza anche minima fino alle elezioni. Per garantire ai mercati la massima possibile tranquillità in ottobre, la Banca del Giappone ha rinviato di un mese l’aumento dei tassi. Inoltre si è fatta trapelare la possibilità di un nuovo taglio da 50 da parte della Fed in novembre, nonostante l’economia americana stia crescendo da sei mesi alla velocità annualizzata del 3 per cento. Il taglio di 50 da parte della Fed (quello già deciso nei giorni scorsi) renderà a sua volta possibile un nuovo taglio di 25 in Europa in ottobre, seguito da un altro in dicembre.

Per ora, inerzialmente, l’inflazione è ancora in discesa, ma il rischio di una ripresa l’anno prossimo, con tutti questi stimoli, non va trascurato. Per questo, nel breve, l’azionario sembra preferibile rispetto ai bond lunghi.

 

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