rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL GRANDE RIBILANCIAMENTO

Geopolitica e geoeconomia dopo il voto americano

Cervelletto, gangli della base, talamo, ippocampo, corteccia parietale inferiore e lobo frontale sono solo le principali, ma sono ben 71 le strutture del cervello umano dedicate alla ricerca e al mantenimento dell’equilibrio posturale, una funzione essenziale per il movimento e per la sopravvivenza.

Tutte e 71 sono già al lavoro nel cervello collettivo globale per reagire con la massima rapidità possibile all’uragano Trump e trovare contrappesi che ne bilancino lo sconquasso. Molti di questi bilanciamenti sono interni allo stesso programma di Trump, altri si produrranno all’interno del sistema America e altri ancora hanno già iniziato a produrre i loro effetti nel resto del mondo (si veda per esempio il precipitare della crisi di governo in Germania e il passaggio di consegne, in tempi brevi, alla Cdu di Merz).

Per capire il contesto, occorre fare un passo indietro e dare un senso a quello che è accaduto nei giorni scorsi su due piani, quello elettorale e quello dei mercati obbligazionari.

Gli elettori hanno punito l’inflazione e la politica migratoria di Biden. Comprare crescita con l’inflazione e comprare poi disinflazione con l’immigrazione incontrollata hanno trovato un limite. Fino a un certo punto portano consenso, oltre quel punto lo fanno perdere.

Lo stesso messaggio lo stanno mandando i mercati obbligazionari. Se la Fed dichiara praticamente conclusa la battaglia contro l’inflazione quando questa è ancora sopra i target ufficiali nella sua componente core, se la Fed dichiara di dare la massima priorità all’occupazione quando questa è già piena, se il disavanzo fiscale è elevato con una crescita al 3 per cento e non potrà che diventare ancora più alto dovesse la crescita rallentare, allora altri tagli dei tassi di policy rischiano di complicare seriamente la vita alla parte lunga della curva. E se questa supera un certo livello di rendimento, mettiamo il 5 per cento, allora devono contrarsi i multipli azionari. E se comincia a scendere la borsa, un’altra fetta di consenso viene meno.

Trump, avendo un certo fiuto politico, ha già affiancato ai suoi punti pro-crescita e anti-tasse altri punti che dovrebbero rassicurare i mercati. Promette la fine dell’inflazione (una promessa molto impegnativa, che gli elettori non dimenticheranno) e, attraverso Musk, il taglio della spesa pubblica. Non lo fa con lo stile austeriano e moralista delle Merkel e degli Schauble del decennio scorso, ma con il piglio populista dell’attacco alla palude degli sprechi di Washington. Ma sempre tagli sono, quelli promessi, e anche consistenti.

Per mantenere un buon livello di crescita e non riaccendere l’inflazione bisogna alzare la produttività. L’intelligenza artificiale verrà sostenuta cercando di affiancare nuovi soggetti agli oligopoli attuali. L’aumento ulteriore dell’offerta domestica di petrolio, tecnicamente possibile, dovrebbe tenerne basso il prezzo a livello globale. Lo stesso dovrebbe farlo la riduzione delle tensioni geopolitiche. La riduzione dell’immigrazione potrebbe portare a una maggiore inflazione salariale, ma anche a una minore pressione sui prezzi delle case, cui gli elettori sono molto sensibili. La deregulation aggressiva promessa sarebbe disinflazionistica e sosterrebbe i margini delle imprese. I dazi porterebbero inflazione, ma anche crescita interna. E non ci sarebbe bisogno di dazi molto elevati se la Cina, come è possibile, accettasse di spostare una parte della sua produzione negli Stati Uniti o di ammorbidire la sua posizione su Taiwan.

I tagli di imposte, dal canto loro, saranno modesti. Se verrà tagliata, come promesso, l’aliquota per le imprese, il Congresso repubblicano troverà una compensazione con una riduzione delle detrazioni. Quanto al rinnovo dei tagli del 2017, sarà, per l’appunto, un rinnovo, non un nuovo abbassamento di imposte. I dazi, a loro volta, se saranno davvero rilevanti, porteranno a un aumento delle entrate fiscali.

Ci saranno poi contrappesi all’interno dal sistema America. La Fed si fermerà prima nel suo promesso ciclo di tagli e difficilmente scenderà sotto il 3.50 di policy. La Fed rimarrà ostile a Trump, sia in difesa della propria indipendenza sia perché conserva una maggioranza democratica. Trump non costringerà Powell alle dimissioni e fino al 15 maggio 2026 non potrà nominare il suo successore. Con meno tagli dei tassi e con i dazi, il dollaro si rafforzerà e anche questo conterrà l’inflazione. Trump, d’altra parte sarà osteggiato da una parte rilevante della magistratura e non sarà aiutato più di tanto dalla Corte Suprema, che gli ha tolto molti voti con la sentenza sull’aborto.

Ci sono infine, e sono particolarmente interessanti, i contrappesi esterni. Con i dazi Trump intende riportare in America una parte di quello che viene oggi prodotto nel resto del mondo. Vista così, è una misura a somma zero per il mondo nel suo complesso. È anzi a somma negativa perché è subottimale.

Succederà però, ha anzi già iniziato a succedere, che il resto del mondo svaluterà rispetto al dollaro e abbasserà i tassi più aggressivamente di quanto pensava. Alla fine, quindi, l’effetto globale sulla crescita sarà a somma positiva.

Ci sarà poi, in Cina e in Europa, una riconsiderazione delle politiche fiscali e industriali. La Cina, in attesa del grande negoziato con l’America, introdurrà nuovi stimoli. L’Europa, con il decisivo passaggio della Germania da Scholz a Merz, riconsidererà le politiche anti-crescita in campo energetico e fermerà, augurabilmente, il processo di autodistruzione di settori industriali come l’auto.

Le conseguenze dei nuovi equilibri sono già evidenti sui mercati finanziari. Il dollaro si rafforza insieme alla borsa. I bond e l’oro si indeboliscono. Il bitcoin si rafforza.

Non sembra però il caso di pensare a movimenti particolarmente pronunciati nel futuro prossimo. Trump è indubbiamente positivo per la borsa americana (meno per le altre) ma il livello elevato delle valutazioni frenerà eccessi rialzisti. I bond, dal canto loro, non torneranno ai livelli da favola Goldilocks di metà settembre, ma nemmeno precipiteranno nell’abisso, se sono almeno in parte vere le considerazioni che abbiamo fatto su inflazione e disavanzi sotto Trump.

L’oro vede venire meno alcune delle vele che ne hanno sostenuto la corsa (i tassi in discesa, il dollaro ritenuto in via di indebolimento, le tensioni geopolitiche particolarmente acute, la diffidenza dei cinesi verso la loro borsa e il loro mercato immobiliare) ma non per questo è pronto a un’inversione di tendenza. Le criptovalute, dal canto loro, saranno sostenute dall’idea che l’amministrazione Trump non farà nulla per danneggiarle.

Cervelletto, gangli della base, talamo, ippocampo, corteccia parietale inferiore e lobo frontale sono solo le principali, ma sono ben 71 le strutture del cervello umano dedicate alla ricerca e al mantenimento dell’equilibrio posturale, una funzione essenziale per il movimento e per la sopravvivenza.

Tutte e 71 sono già al lavoro nel cervello collettivo globale per reagire con la massima rapidità possibile all’uragano Trump e trovare contrappesi che ne bilancino lo sconquasso. Molti di questi bilanciamenti sono interni allo stesso programma di Trump, altri si produrranno all’interno del sistema America e altri ancora hanno già iniziato a produrre i loro effetti nel resto del mondo (si veda per esempio il precipitare della crisi di governo in Germania e il passaggio di consegne, in tempi brevi, alla Cdu di Merz).

Per capire il contesto, occorre fare un passo indietro e dare un senso a quello che è accaduto nei giorni scorsi su due piani, quello elettorale e quello dei mercati obbligazionari.

Gli elettori hanno punito l’inflazione e la politica migratoria di Biden. Comprare crescita con l’inflazione e comprare poi disinflazione con l’immigrazione incontrollata hanno trovato un limite. Fino a un certo punto portano consenso, oltre quel punto lo fanno perdere.

Lo stesso messaggio lo stanno mandando i mercati obbligazionari. Se la Fed dichiara praticamente conclusa la battaglia contro l’inflazione quando questa è ancora sopra i target ufficiali nella sua componente core, se la Fed dichiara di dare la massima priorità all’occupazione quando questa è già piena, se il disavanzo fiscale è elevato con una crescita al 3 per cento e non potrà che diventare ancora più alto dovesse la crescita rallentare, allora altri tagli dei tassi di policy rischiano di complicare seriamente la vita alla parte lunga della curva. E se questa supera un certo livello di rendimento, mettiamo il 5 per cento, allora devono contrarsi i multipli azionari. E se comincia a scendere la borsa, un’altra fetta di consenso viene meno.

Trump, avendo un certo fiuto politico, ha già affiancato ai suoi punti pro-crescita e anti-tasse altri punti che dovrebbero rassicurare i mercati. Promette la fine dell’inflazione (una promessa molto impegnativa, che gli elettori non dimenticheranno) e, attraverso Musk, il taglio della spesa pubblica. Non lo fa con lo stile austeriano e moralista delle Merkel e degli Schauble del decennio scorso, ma con il piglio populista dell’attacco alla palude degli sprechi di Washington. Ma sempre tagli sono, quelli promessi, e anche consistenti.

Per mantenere un buon livello di crescita e non riaccendere l’inflazione bisogna alzare la produttività. L’intelligenza artificiale verrà sostenuta cercando di affiancare nuovi soggetti agli oligopoli attuali. L’aumento ulteriore dell’offerta domestica di petrolio, tecnicamente possibile, dovrebbe tenerne basso il prezzo a livello globale. Lo stesso dovrebbe farlo la riduzione delle tensioni geopolitiche. La riduzione dell’immigrazione potrebbe portare a una maggiore inflazione salariale, ma anche a una minore pressione sui prezzi delle case, cui gli elettori sono molto sensibili. La deregulation aggressiva promessa sarebbe disinflazionistica e sosterrebbe i margini delle imprese. I dazi porterebbero inflazione, ma anche crescita interna. E non ci sarebbe bisogno di dazi molto elevati se la Cina, come è possibile, accettasse di spostare una parte della sua produzione negli Stati Uniti o di ammorbidire la sua posizione su Taiwan.

I tagli di imposte, dal canto loro, saranno modesti. Se verrà tagliata, come promesso, l’aliquota per le imprese, il Congresso repubblicano troverà una compensazione con una riduzione delle detrazioni. Quanto al rinnovo dei tagli del 2017, sarà, per l’appunto, un rinnovo, non un nuovo abbassamento di imposte. I dazi, a loro volta, se saranno davvero rilevanti, porteranno a un aumento delle entrate fiscali.

Ci saranno poi contrappesi all’interno dal sistema America. La Fed si fermerà prima nel suo promesso ciclo di tagli e difficilmente scenderà sotto il 3.50 di policy. La Fed rimarrà ostile a Trump, sia in difesa della propria indipendenza sia perché conserva una maggioranza democratica. Trump non costringerà Powell alle dimissioni e fino al 15 maggio 2026 non potrà nominare il suo successore. Con meno tagli dei tassi e con i dazi, il dollaro si rafforzerà e anche questo conterrà l’inflazione. Trump, d’altra parte sarà osteggiato da una parte rilevante della magistratura e non sarà aiutato più di tanto dalla Corte Suprema, che gli ha tolto molti voti con la sentenza sull’aborto.

Ci sono infine, e sono particolarmente interessanti, i contrappesi esterni. Con i dazi Trump intende riportare in America una parte di quello che viene oggi prodotto nel resto del mondo. Vista così, è una misura a somma zero per il mondo nel suo complesso. È anzi a somma negativa perché è subottimale.

Succederà però, ha anzi già iniziato a succedere, che il resto del mondo svaluterà rispetto al dollaro e abbasserà i tassi più aggressivamente di quanto pensava. Alla fine, quindi, l’effetto globale sulla crescita sarà a somma positiva.

Ci sarà poi, in Cina e in Europa, una riconsiderazione delle politiche fiscali e industriali. La Cina, in attesa del grande negoziato con l’America, introdurrà nuovi stimoli. L’Europa, con il decisivo passaggio della Germania da Scholz a Merz, riconsidererà le politiche anti-crescita in campo energetico e fermerà, augurabilmente, il processo di autodistruzione di settori industriali come l’auto.

Le conseguenze dei nuovi equilibri sono già evidenti sui mercati finanziari. Il dollaro si rafforza insieme alla borsa. I bond e l’oro si indeboliscono. Il bitcoin si rafforza.

Non sembra però il caso di pensare a movimenti particolarmente pronunciati nel futuro prossimo. Trump è indubbiamente positivo per la borsa americana (meno per le altre) ma il livello elevato delle valutazioni frenerà eccessi rialzisti. I bond, dal canto loro, non torneranno ai livelli da favola Goldilocks di metà settembre, ma nemmeno precipiteranno nell’abisso, se sono almeno in parte vere le considerazioni che abbiamo fatto su inflazione e disavanzi sotto Trump.

L’oro vede venire meno alcune delle vele che ne hanno sostenuto la corsa (i tassi in discesa, il dollaro ritenuto in via di indebolimento, le tensioni geopolitiche particolarmente acute, la diffidenza dei cinesi verso la loro borsa e il loro mercato immobiliare) ma non per questo è pronto a un’inversione di tendenza. Le criptovalute, dal canto loro, saranno sostenute dall’idea che l’amministrazione Trump non farà nulla per danneggiarle.

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