rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL PRIMO PIVOT

Non è un liberi tutti, ma l’inizio di un lento processo

Ci sono tre dinamiche che vanno tenute distinte. La prima è quella dell’economia reale. La seconda è quella delle politiche monetarie. La terza è quella dei mercati.

Ci sono tre dinamiche che vanno tenute distinte. La prima è quella dell’economia reale. La seconda è quella delle politiche monetarie. La terza è quella dei mercati.

L’economia reale sta dando qualche segnale di rallentamento. Di questo rallentamento, che potrebbe in teoria trasformarsi in recessione, c’è da più di un anno e mezzo un’attesa messianica intorno alla quale si sono formati due tipi distinti di culti.

Il primo culto è quello del semplice rallentamento senza recessione, l’atterraggio morbido, la Goldilocks del porridge alla giusta temperatura, né troppo fredda né troppo calda. I seguaci di questo culto praticano l’acquisto di bond lunghi e quello di azioni, in particolare quelle dell’alta tecnologia. Credono che l’inflazione non sia più un problema, che la Fed abbasserà ordinatamente i tassi, sicuramente giunti ai massimi, che l’economia rallenterà moderatamente e che i profitti riprenderanno a salire l’anno prossimo e quelli successivi.

Il secondo culto è di orientamento recessionista. È composto da persone tenaci, che hanno cominciato a ipotizzare una recessione imminente già nel primo trimestre del 2022, quando i tassi erano ancora a zero. Il mancato arrivo della recessione durante tutto questo tempo, lungi dall’indebolire la loro fede, ha reso febbrile la loro attesa e temprato il loro spirito. Per loro qualsiasi rialzo azionario è un bear market rally e un’occasione per vendere. I bond con duration elevata sono per molti di loro il migliore rifugio, purché siano di alta qualità. Per altri, tuttavia, nemmeno i bond vanno bene perché la recessione farà crescere ulteriormente i disavanzi fiscali e ridurrà ancora il merito di credito di quasi tutti gli emittenti, sia privati sia pubblici. L’oro e il bitcoin, per loro, restano dunque l’ultimo rifugio.

I dati, per il momento, non parlano di recessione, ma di un rallentamento che non è altro che il ritorno al livello di crescita medio dell’ultimo anno e mezzo dopo il boom solitario del terzo trimestre. Il nowcast della Fed di Atlanta, che aveva fotografato la settimana scorsa la velocità annualizzata dell’economia americana all’1.2 per cento (dopo il 4.9 del terzo trimestre) l’ha corretta ieri al 2.1. I sussidi di disoccupazione, misurati ogni settimana, sono saliti pochissimo. I recessionisti hanno però citato la regola di Sahm, che sostiene che quando il tasso di disoccupazione sale di mezzo punto percentuale, una recessione è inevitabile in tempi brevissimi. In aprile, dicono, la disoccupazione era al 3.4, oggi è al 3.9 ed ecco che il gioco è fatto. In realtà la regola che Claudia Sahm propose nel 2019 afferma che, quando la media mobile a tre mesi della disoccupazione è dello 0.5 per cento superiore al punto minimo dei 12 mesi precedenti, l’economia ha già smesso di crescere. In quel caso, era l’idea della Sahm, che allora lavorava alla Fed di St. Louis, il Tesoro dovrebbe automaticamente mandare un assegno a tutte le famiglie. Oggi la media mobile è sopra il punto minimo di 0.33 punti, non di 0.5.

Allargando poi lo sguardo al resto del mondo, l’Europa a crescita molto bassa non è certo una novità, mentre la Cina ribadisce che intende crescere del 5 per cento l’anno prossimo. Tornando all’America è difficile pensare a una Fed a maggioranza democratica che prepara una recessione proprio a ridosso delle elezioni del novembre prossimo. Insomma, i giochi sono ancora aperti, ma ritenere che i segni di debolezza che si vedono qua e là siano l’inizio di una recessione è una forzatura. Dopo tutto, anche le concessioni di credito da parte delle banche, che dopo gli incidenti di marzo sembravano destinate a diventare più severe, non sono scese in maniera rilevante.

Venendo alla politica monetaria, la Fed ha fatto capire che i tassi non saliranno più. Questo ha fatto pensare a un pivot, ovvero a una svolta strategica, operata la quale, per i mercati, tutto andrà nel modo migliore. In realtà il pivot ha tre fasi, non una. La prima, la fine dei rialzi, l’abbiamo vista. La seconda, la fine del Quantitative tightening, è ancora di là da venire e, se l’economia tiene, avverrà alla fine dell’anno prossimo. La terza, l’inizio dei tagli, richiede da manuale che sia prima terminato il Qt. Certo, in caso di recessione la Fed anticiperà i tempi, ma se ci sarà Goldilocks non lo farà. Ecco quindi che credere a Goldilocks e, allo stesso tempo, a quattro tagli dei tassi l’anno prossimo, sembra poco coerente.

Per i mercati il discorso è diverso. Veniamo da una fase in cui le borse hanno perso il 10 per cento e i tassi sui bond lunghi hanno superato il 5 per cento. È stata una fase di paura, che ha visto in particolare la liquidazione di alcuni portafogli obbligazionari e la costruzione di importanti posizioni al ribasso. Ora, dopo il primo pivot della Fed, le posizioni al ribasso vengono affannosamente chiuse. In più, la stagionalità passa da negativa a positiva. Alla fine dell’anno mancano poche settimane e i gestori non possono permettersi di sbagliare e di andare controcorrente.

In sintesi, non ci sono ragioni per essere catastrofisti, ma non ce ne sono nemmeno, pensando a sei mesi, per essere così ottimisti. Ci sono però ragioni tattiche per pensare in modo ragionevolmente costruttivo da qui alla fine dell’anno. Nell’allocazione di portafoglio, in ogni caso, rimangono da sovrappesare i bond. Le azioni hanno infatti spazio nel caso in cui si eviti una recessione (peraltro il nostro scenario di base). I bond di qualità hanno invece spazio (ancora di più) anche in caso di recessione.

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