rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL TESORETTO

Tagliare i tassi si può e si deve, ma senza forzature

C’è un tesoretto stimato in 200 punti base di tagli dei tassi da spendere nei prossimi 16-20 mesi. Il mercato gli gira intorno impaziente. Se potesse li vorrebbe tutti subito, anche perché in parte se li è già spesi comprando azioni e bond e spingendone i prezzi verso l’alto.

C’è un tesoretto stimato in 200 punti base di tagli dei tassi da spendere nei prossimi 16-20 mesi. Il mercato gli gira intorno impaziente. Se potesse li vorrebbe tutti subito, anche perché in parte se li è già spesi comprando azioni e bond e spingendone i prezzi verso l’alto.

Le banche centrali, dopo avere aspettato a lungo, sono ora tutte disponibili, con l’eccezione della Banca del Giappone, a iniziare ad attingere al tesoretto. Alcune hanno già iniziato. La Bce è già al suo secondo taglio e la Fed inizierà, molto probabilmente con 25 punti base, la settimana prossima. Mentre i mercati scodinzolano impazienti, le banche centrali sono certamente disposte ad assecondare le richieste più urgenti, ma si mantengono ancora caute se si tratta di impegnarsi a un ritmo regolare e prolungato di tagli. Faremo quello che sarà giusto fare, dicono, né di più né di meno.

Alcuni tra gli impazienti accusano allora le banche centrali di essere dietro la curva, cioè in ritardo, esattamente come lo erano state quando nel 2021, di fronte all’evidenza di una crescita esplosiva e di un’inflazione galoppante, avevano tergiversato colpevolmente e parlato di inflazione transitoria per non alzare i tassi, salvo poi ritrovarsi l’anno successivo a dovere minacciare (e produrre) un diluvio di rialzi per cercare di spegnere l’incendio.

Altri, più sofisticati, accusano le banche centrali di non avere una strategia, di reagire ai dati invece di pianificare un percorso. Non ci dicono quale sarà il tasso terminale, lamentano, forse perché non sanno quale sia, così come non sanno che dimensioni debba avere il tasso neutrale in questa fase storica.

Per quanto in alcune critiche ci possa essere del vero, la cautela delle banche centrali ha delle giustificazioni che questa volta paiono robuste. D’altra parte, tra gli economisti, c’è una piccola ma qualificata minoranza che sostiene addirittura che non ci sia nemmeno bisogno di toccarlo, il tesoretto.

Perché tagliare, dicono ad esempio Torsten Slok e Jim Bianco, quando l’economia va benissimo e quando l’inflazione si è stabilizzata su un livello superiore all’obiettivo ufficiale, che fino a prova contraria è ancora il 2 per cento?

Che l’economia (americana) stia andando molto bene può suonare strano a molti. Non si parla forse, nei mercati, di rischi di recessione imminente, se non già in corso? Ebbene no, non c’è nessuna recessione alle viste e se qualcuno trova che la vendita di questo o di quello è al suo livello più basso, udite udite, dall’estate del 2008, non vuol dire che siamo alla vigilia di una nuova Grande Crisi Finanziaria.

Il Pil americano del secondo trimestre è cresciuto a una velocità annualizzata del 3 per cento. Storia antica, si dirà. Andiamo allora a vedere a che velocità sta crescendo il terzo, che sta per concludersi. Secondo il Nowcast della Fed di Atlanta la velocità è del 2.4, secondo la Fed di New York è del 2.6. Per il quarto la Fed di New York prevede il 2.2. Questi dati sono costantemente corretti al rialzo da quattro settimane.

Viene in mente la grande intuizione di Bob Farrell. Non è la narrazione che determina l’andamento dei mercati. È l’andamento dei mercati che determina la narrazione. Quando i mercati sono sovraccarichi, come abbiamo visto nei primi giorni di agosto e poi di nuovo venerdì scorso, diventano ipersensibili rispetto a qualsiasi sorpresa negativa, anche minuscola, e si mettono a vendere. La caduta dei prezzi viene allora razionalizzata confezionando una narrazione a tinte forti. Se le quotazioni scendono siamo davvero in recessione, ci si ripete l’uno con l’altro mettendosi le mani tra i capelli. Là fuori, intanto, il mondo procede tranquillo per la sua strada.

La stessa forzatura i mercati la commettono sull’inflazione. Sono mesi che sentiamo dire che l’inflazione è tornata in ibernazione permanente e che continuerà a scendere. Può darsi, ma per il momento si è solo stabilizzata (sopra il 2 per cento) e si vede benissimo che il fuoco cova sotto la cenere, come nel caso del prezzo delle case e degli affitti, dati eternamente in discesa dai modelli (che ignorano l’immigrazione) e in realtà sempre vivaci.

Perché tagliare, allora, soprattutto se si considera che i tassi reali, dal 1980 al 2008, sono stati vicini ai livelli attuali e che solo nel decennio scorso sono stati più bassi? Si taglia perché ce lo si può permettere, per prevenire incidenti di percorso, per evitare che il mercato del lavoro si indebolisca ulteriormente e inutilmente, per contenere gli interessi da pagare sul debito pubblico (arrivati in America a 3 miliardi al giorno), per evitare che ritornino crisi bancarie come quella della primavera del 2023.

Insomma il tesoretto c’è sul serio e un po’ alla volta lo si può spendere, ma non tanto per spenderlo. Certamente si darà la priorità alla difesa della crescita rispetto alla lotta contro l’inflazione, ma quest’ultima non andrà trascurata. Ricordiamo che Powell ha dichiarato missione compiuta sull’inflazione due volte nel 2023 e due volte ha dovuto ricredersi.

Dispiace per gli amanti delle grandi strategie, ma il procedere a tentoni da parte delle banche centrali è giustificato. Questa prudenza eviterà errori gravi e correzioni di rotta costose, come accadde negli anni Settanta quando si tagliava troppo non appena si stabilizzava l’inflazione e poi si doveva rialzare di nuovo dopo pochi mesi.

Per i mercati questa prudenza eviterà l’enorme volatilità degli anni Settanta e proteggerà i livelli raggiunti. In cambio limiterà il potenziale di ulteriori grandi rialzi di borse e bond. Se fino ad oggi i rialzi di mercato sono stati basati per una certa parte su speranze e aspettative, da qui in avanti dovranno essere supportati dai fatti.

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