Solo raramente, quando i vestiti che mettiamo di solito cominciano a stringere, è colpa della tintoria che ha sbagliato il lavaggio. La gran parte delle volte i vestiti diventati piccoli ci dicono che stiamo ingrassando e ci mandano un segnale particolarmente utile se non siamo abituati a pesarci regolarmente.
Solo raramente, quando i vestiti che mettiamo di solito cominciano a stringere, è colpa della tintoria che ha sbagliato il lavaggio. La gran parte delle volte i vestiti diventati piccoli ci dicono che stiamo ingrassando e ci mandano un segnale particolarmente utile se non siamo abituati a pesarci regolarmente.
A quel punto si apre un trilemma. Si può cercare di ritornare al peso precedente, mettendosi a dieta e aumentando l’attività fisica. In alternativa si può accettare di soffocare dentro i vestiti e di convivere (male) con il nostro nuovo peso. È una scelta che ci permette di continuare a considerare transitorio quello che ci sta succedendo e di negare la nuova realtà a noi stessi e agli altri che ce la fanno notare. La sofferenza è anche uno stimolo costante, se siamo in buona fede, a non lasciare deteriorare ulteriormente la situazione.
La terza alternativa è comprare vestiti di una taglia più grande, aiutandoci in questa difficile scelta con il discorso che quelli vecchi cominciavano a essere lisi e non erano più di moda. Il vantaggio di questa scelta è che si può finalmente tornare a respirare e muoversi bene. Lo svantaggio è che, venendo meno la sensazione di soffocamento, viene anche meno il segnale d’allarme. Se si continua a mangiare più del necessario i vestiti presto o tardi ritorneranno ad apparire piccoli e il trilemma si proporrà un’altra volta.
Di solito le alternative che abbiamo descritto vengono vissute in sequenza. Prima si dà la colpa alla tintoria, poi si prova con la dieta. Quando la volontà di stare a dieta si affievolisce subentra l’idea che il nuovo peso sarà comunque transitorio. Alla fine si comprano i vestiti più larghi. La caduta agli inferi è reversibile, ma più a lungo si lasciano andare le cose più è difficile ripristinare la condizione di partenza.
Comincia a girare l’idea che se fra un anno l’inflazione, dopo la fiammata transitoria al cinque, si sarà stabilizzata al tre la Fed, invece di alzare i tassi o continuare ad arrampicarsi sugli specchi per non farlo, potrebbe dichiarare che il tre è il nuovo due, ossia il nuovo obiettivo di policy. Ricordiamo che le leggi che regolano le banche centrali danno loro il compito di garantire la stabilità dei prezzi, ma non forniscono una definizione di inflazione. Una volta si considerava tale qualsiasi cifra sopra lo zero, poi si è passati al due, poi al due abbondante recentemente adottato prima dalla Fed e poi dalla Bce. Nulla vieta, né in teoria né in pratica, di passare al tre se non, come aveva proposto Blanchard all’indomani della Grande Recessione del 2008, direttamente al quattro.
Gli esponenti della Fed a cui è stato chiesto un parere in proposito hanno finora rifiutato di rispondere (Powell) o hanno rifiutato l’idea (Bullard). È un atteggiamento comprensibile. Con il mercato obbligazionario tranquillo e perfettamente a suo agio con rendimenti reali severamente punitivi non c’è nessuna ragione di agitare spettri e dare spazio alle polemiche.
Per chi investe conta capire una cosa sola. Dell’insieme di obiettivi che i legislatori hanno dato alle banche centrali (controllo dell’inflazione, massima occupazione, stabilità finanziaria) e di quelli che le banche centrali negli ultimi tempi si sono dati da sole (cambiamenti climatici, lotta alle diseguaglianze) quello che di gran lunga conta più di tutti in questo momento è l’occupazione, del quale clima e diseguaglianze sono ancillari.
E non, si badi, con la metrica dei disoccupati in uso da sempre, ma con la nuova metrica degli inoccupati, come ha ribadito Powell con la massima chiarezza a Jackson Hole. Teoricamente la disoccupazione potrebbe scendere anche a zero, ma finché non si riduce anche il numero degli inoccupati (il nonno in pensione, la madre che sta a casa a curare i figli), di coloro cioè che non stanno cercando un lavoro, le politiche rimarranno ultraespansive. L’inflazione? Vada dove vuole, in buona sostanza. Si cercherà di fare qualcosa per via politica o amministrativa, spingendo l’Opec a produrre più petrolio o tagliando d’autorità il prezzo dei farmaci, ma non molto di più. Per adesso è sufficiente dire che l’inflazione è transitoria. Se lo sarà sul serio, bene. Se non lo sarà si vedrà l’anno prossimo come aggiustare la narrazione. Anche l’ipotesi di alzare l’obiettivo di policy al tre per cento, nel caso, potrà venire utile.
Questo in America. In Europa c’è un altro tre per cento di cui qualcuno sta riprendendo a parlare, quello di Maastricht che si riferisce ai disavanzi pubblici. È un limite che negli anni è stato reso più articolato e complicato all’inverosimile dall’uso e dall’abuso del concetto di disavanzo strutturale ma che ha comunque, per come viene calcolato in Europa, un retrogusto inconfondibile di austerità e svalutazione interna.
Ripristinare il rigore fiscale e monetario a pandemia ancora in corso (fino a prova contraria) e con un’inflazione europea che è solo inflazione da petrolio, da Iva tedesca e da inflazione salariale solo tedesca è come fare digiunare tutta la famiglia, inclusi i figli debolucci, perché il papà è ingrassato di qualche etto. Farlo da soli in un mondo ultraespansivo significa andarsi a cercare una rivalutazione dell’euro. Il mercato ha colto subito la situazione e sta avviando con una certa decisione un processo di recupero della valuta europea. Le borse continentali, come conseguenza, riprendono a crescere meno di Wall Street.
Le uscite dei fautori dell’austerità vanno tenute nella debita considerazione, ma al momento non dovrebbero fare troppi danni. Il blocco di maggioranza che in Bce si raccoglie intorno alla Francia ha buon gioco, a pandemia in corso e variante mu già arrivata sul suolo europeo, nel definire prematura qualsiasi ipotesi di tapering.
Sappiamo poi che nulla di serio verrà deciso fino a quando non si sarà formato un nuovo governo in Germania ovvero, come minimo, fino alla fine dell’anno. Subito dopo subentreranno le elezioni francesi, che si terranno in aprile e che si prospettano molto aperte.
Proviamo allora a tirare le somme. È vero, ci sono strozzature nell’offerta globale ancora più serie di quanto si pensasse. E ci sono anche vuoti d’aria imprevisti nella domanda con la presa d’atto che il ciclo varianti-vaccinazioni-nuove varianti rischia di protrarsi con il conseguente permanere di una elevata propensione al risparmio. Se però si riuscirà (come è tuttora molto probabile) a mantenere una buona capacità complessiva di crescita fino alla metà dell’anno prossimo le borse accoglieranno bene qualsiasi dato macro. Le sorprese negative, infatti, verranno lette come giustificazione di un prolungamento ulteriore delle politiche ultraespansive.
Ancora lunghi di borsa, quindi, pur consapevoli che gli eccessi di sentiment e di posizionamento dovranno ogni tanto trovare sfogo in qualche veloce correzione e pur sapendo che la scena politica di Washington si riscalderà progressivamente da qui a metà ottobre con un enorme ingorgo di pacchetti fiscali, debt ceiling e spettri di default tecnico.
Chi ha paura di avere paura nelle prossime settimane alleggerisca qualcosa adesso per ricomprare nei momenti di scontro più acceso. Chi può sopportare una correzione del 5 per cento non si preoccupi troppo, perché le correnti di fondo continuano a essere favorevoli.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.