È stato solo un brutto sogno. Così si dice ai bambini che si svegliano spaventati e così il mercato si è raccontato dopo il dato sull’inflazione americana di gennaio, più alta del previsto su tutta la linea.
È stato solo un brutto sogno. Così si dice ai bambini che si svegliano spaventati e così il mercato si è raccontato dopo il dato sull’inflazione americana di gennaio, più alta del previsto su tutta la linea.
Per aiutarsi in questa convinzione e riprendere a salire gioiosamente nel nome della disinflazione immacolata, del soft landing, dei tagli a raffica da parte della Fed e del migliore dei mondi possibili, il mercato e molti dei suoi economisti hanno dissezionato accuratamente il dato in tutte le sue singole componenti. In questo modo hanno giustificato una per una quelle che erano salite molto, trovando che erano invariabilmente dati ritardati che riflettevano un mondo che non c’è più (come l’aumento degli affitti) oppure dati ballerini casualmente usciti elevati oppure ancora dati pesati troppo nel paniere e che verranno corretti dal Pce, il paniere che guarda la Fed e che fu inventato a suo tempo per dare stabilmente risultati più bassi del Cpi.
Se poi dovesse esserci davvero una riaccelerazione dell’inflazione, si è raccontato il mercato azionario, questo sarebbe un problema per i bond lunghi, ma non per le borse. Se infatti l’inflazione in più si accompagna a una crescita vivace dell’economia ce ne faremo una ragione, perché avremo in cambio fatturati e utili più alti da festeggiare.
Tutti questi ragionamenti hanno una loro parte di verità. E anche se non l’avessero non va mai dimenticato che, come nelle corti di giustizia conta la verità processuale (ovvero la ricostruzione dei fatti, che può essere diversa da come sono andate le cose veramente) così nei mercati conta la verità di mercato, non la verità sottostante. Conta cioè il paradigma con il quale la realtà è ricostruita, che da alcuni mesi è quello del soft landing. Non si cambia il paradigma per un solo dato discordante, tanto meno se il paradigma ha fatto fin qui guadagnare molto bene chi lo ha adottato.
Certo, è un po’ sospetto che le argomentazioni adottate per sminuire la rilevanza del dato in questione, come ad esempio i fattori di destagionalizzazione o il ritardo implicito nei dati che vengono aggiornati solo una volta all’anno (come il costo delle assicurazioni mediche) fossero stati tranquillamente ignorati altre volte. Ma questo è il bello dei mercati, che non sono una scienza esatta.
Restano una conferma e una riflessione. La conferma è che l’inflazione, non la recessione, è il possibile guastafeste dal quale devono guardarsi i mercati nei prossimi due anni. Un’inflazione che dovesse stabilizzarsi al 3 per cento senza scendere al 2 non sarebbe certo una tragedia e verrebbe accettata da mercati che hanno appena finito di convivere con livelli anche superiori al 10 per cento, ma renderebbe particolarmente caute le banche centrali sui prossimi tagli dei tassi. Paradossalmente sarebbe più cauta la Bce, nonostante la debolezza della crescita europea, della Fed. Quest’ultima può infatti tagliare i tassi giustificandosi con l’aumento della produttività americana, un argomento che, nell’Europa in cui permangono le tensioni salariali e in cui la crescita della produttività è bassa, non può essere utilizzato.
La riflessione è che all’attenzione esasperata dei mercati ai dati puntuali sull’inflazione non corrisponde una volontà di approfondire come meritano le questioni strutturali che decideranno dell’inflazione nei prossimi anni, sia macro (l’influenza delle politiche fiscali espansive sui prezzi) sia micro.
Tra le questioni micro ne citiamo in particolare due, tra loro collegate, ovvero quella della costruzione di filiere produttive regionali parallele là dove c’era un’unica filiera globale da una parte e il protezionismo dall’altra.
In prima battuta, il fatto che Cina, America ed Europa vogliano tutte avere una loro industria domestica, anche sovvenzionata da denaro pubblico, in un numero crescente di settori fa pensare alla possibilità, tra pochi anni, di un eccesso di offerta e a prezzi in conseguente ribasso. Si pensi ai semiconduttori, alle auto elettriche, alle batterie. Ma anche all’industria militare fino a ieri spesso dipendente da componenti importate. Non ci saranno, a un certo punto, troppi semiconduttori così come, già oggi, sembrano esserci troppe auto elettriche rispetto alla domanda? Dopo tutto, come ha notato Nassim Taleb, se a una fase di sovrabbondanza non segue necessariamente una fase di scarsità, è invece sempre vero che a una fase di scarsità segue inesorabilmente una fase di sovrabbondanza di offerta.
Ma che farà l’Europa, dopo avere speso tanti soldi per avere le sue batterie, per difendere la sua nuova industria dalla concorrenza cinese? Metterà alti dazi, così come Trump, se eletto, metterà dazi del 60 per cento su tutti i prodotti cinesi. Dal canto suo la Cina non starà per sempre a guardare e chiuderà anche lei il suo mercato (già adesso è considerato poco patriottico comprare cellulari stranieri). L’effetto di queste misure sarà il rialzo dei prezzi che i produttori domestici potranno imporre ai consumatori. Solo America Latina e Africa, sulle quali si riverseranno gli esportatori delle tre regioni più industrializzate, potranno godersi il basso costo di un’auto elettrica cinese e potranno scegliere il migliore offerente per ogni prodotto. Peccato, come nota Michael Pettis, che per importare tutte queste belle cose America Latina e Africa dovranno riuscire ad esportare altrettanto o, almeno, a vendere tante loro obbligazioni nel resto del mondo.
Non ancora chiariti, d’altra parte, sono anche gli effetti dell’invecchiamento e della crisi della natalità. Se nel decennio scorso si pensava che fossero deflazionistici, oggi si tende a pensare che possano essere inflazionistici. I vecchi sempre più numerosi, dopo tutto, hanno molti più soldi da spendere dei giovani sempre più scarsi.
Né sono studiati come dovrebbero temi come la scarsità strutturale di abitazioni nel mondo, che crea una spinta al rialzo dei prezzi delle case sia in assoluto sia in rapporto al reddito.
Temi ampi, come si vede, e così complessi da rendere poco credibili le affermazioni di chi dice con sicurezza che i prezzi torneranno stabili come nel decennio scorso o di chi al contrario afferma che l’inflazione sarà un fenomeno permanente. Viene piuttosto da pensare a una volatilità dell’inflazione futura e alla necessità di mantenere comunque, nei portafogli, asset reali che la possano compensare.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.