rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

LA PAGLIUZZA

La difficile arte di raffreddare senza surgelare

È l’ultima pagliuzza quella che spezza la schiena del cammello, dice il proverbio. È l’ultimo rialzo dei tassi quello che avvia una recessione.

È l’ultima pagliuzza quella che spezza la schiena del cammello, dice il proverbio. È l’ultimo rialzo dei tassi quello che avvia una recessione.

Per quanto sofisticati possano essere i modelli econometrici delle banche centrali, il processo di aggiustamento dei tassi per sgonfiare l’inflazione resta una sequenza di tentativi e di errori. È esattamente come quando si parcheggiava una volta l’auto in uno spazio ristretto (adesso c’è il computer di bordo che fa tutti i calcoli) e si dava un colpetto all’auto davanti e uno all’auto dietro per capire quanto spazio c’era e regolarsi nella manovra. Vista la complessità dei sistemi economici, bisogna inoltre immaginare un parcheggio effettuato di notte con i vetri appannati, con un temporale furioso e con gli altri passeggeri (i politici e i mercati) che gridano agitati che stiamo sbagliando tutto.

Dopo un anno di manovre (il primo rialzo dei tassi americani è stato il 5 aprile 2022) siamo finalmente arrivati al momento decisivo. Questo momento non è, come spesso pensano i mercati, quello in cui la banca centrale dichiara terminato il ciclo dei rialzi, ma quello in cui l’inflazione e l’economia rispondono ai rialzi. Non è, per continuare con l’esempio del parcheggio, il momento in cui spegniamo il motore e dichiariamo terminata la manovra, bensì quello in cui, scesi dalla macchina, osserviamo quello che abbiamo fatto e vediamo se abbiamo rotto il fanale della nostra auto o di quelle adiacenti.

Si usa dire, a ragione, che le banche centrali, quando devono raffreddare un’economia surriscaldata, frenano finché non si rompe qualcosa. Se non si rompe niente vanno avanti. Finora, con la crisi dei fondi pensione inglesi, con le crisi bancarie americane e con qualche primo default nei paesi emergenti, si è rotto qualche fanale e ammaccato il paraurti, ma niente di più. Alla crisi inglese si è posto rimedio in pochi giorni e alle crisi bancarie americane si è risposto con altrettanta rapidità. Si sono garantiti i depositanti e si è concessa ampia liquidità alle banche. Quanto alle difficoltà di First Republic emerse in questi ultimi giorni sono una coda della crisi di marzo. Non segnalano nuovi problemi ma sono il risultato del conflitto ancora non risolto su chi dovrà salvare la banca, se il settore privato o l’Fdic.

Certo, con i tassi sul mercato monetario al 5 per cento e gli interessi sul conto corrente a zero il processo di riduzione dei depositi continuerà, ma la garanzia di fatto sui depositi toglie l’urgenza del panico e rallenta il processo, rendendolo gestibile.

A questo punto la sfida si allarga dalle situazioni particolari di alcune istituzioni finanziarie al quadro generale dell’economia. Reggerà la crescita? Si riuscirà a fare scendere l’inflazione velocemente, in modo da avviare un ciclo di ribassi dei tassi?

Finora, in particolare nel primo trimestre, i mercati hanno mostrato un grande ottimismo. Non solo hanno preso atto, giustamente, della buona tenuta della crescita, che è tornata ad accelerare in America, in Europa e in Cina, ma hanno anche considerato passeggero il rimbalzo dell’inflazione. Così facendo hanno potuto confezionare una narrazione per l’intero 2023 che non solo esclude la recessione, ma arriva a ipotizzare due ribassi dei tassi già nella seconda parte di quest’anno.

Questa narrazione in rosa, per quanto suggestiva, ha però alcuni punti deboli. Il primo è che la crescita americana comincia a mostrare qualche segno di cedimento anche nel settore dei servizi, che rappresenta il 70 per cento dell’economia. Il fenomeno può essere temporaneo, ma va seguito con attenzione, anche perché la debolezza dei servizi, se confermata, avrebbe ricadute sul mercato del lavoro che finora, nel complesso, si è difeso bene.

Un altro punto dubbio è l’inflazione. Il dato odierno sul deflatore del Pil nel primo trimestre (il più completo dato sull’inflazione, che include tutto e pondera ogni componente per il suo peso effettivo) indica un’accelerazione rispetto al trimestre precedente. L’energia è tornata a scendere, ma è nei servizi che si annidano i problemi. È qui che la pagliuzza dell’ultimo rialzo della Fed dovrà spezzare la schiena del pricing power delle imprese. E lo potrà fare, salvo miracoli, solo sopprimendo la domanda, visto che allargare l’offerta non rientra tra le sue competenze.

Insomma, ipotizzare che non ci sarà recessione e che al tempo stesso i tassi inizieranno presto a scendere non è impossibile, ma rappresenta il migliore dei mondi possibili perché presuppone una discesa verticale dell’inflazione. Sul versante opposto, Larry Summers continua a pensare che non sarà possibile tornare al 2 per cento di inflazione senza un serio rallentamento dell’economia.

L’ipotesi più realistica si colloca a metà strada. La Fed (lo stesso vale per la Bce) si fermerà prima del 2 per cento e si accontenterà del 3. Così facendo, le sarà però difficile abbassare i tassi già quest’anno, a meno di una recessione. In altre parole, o ci sarà una recessione e allora avremo presto tagli dei tassi, oppure la recessione non ci sarà, ma il prezzo sarà il mancato taglio dei tassi per quest’anno.

In Europa la situazione è un po’ diversa. L’inflazione core è un osso ancora più duro da spezzare che in America. Consumi e crescita in compenso vanno piuttosto bene, aiutati dall’aumento delle retribuzioni che il lavoro dipendente riesce qua e là a strappare (si vedano i forti aumenti per i dipendenti pubblici tedeschi) e dalla ripresa della Cina. Le esportazioni europee vanno bene (anche se la concorrenza cinese diventa di giorno in giorno più temibile) e, unite al calo delle importazioni e al netto miglioramento delle ragioni di scambio, hanno riportato in attivo la bilancia delle partite correnti. Le borse europee ne prendono atto con un rialzo del 15 per cento dall’inizio dell’anno, mentre la borsa americana, se si escludono gli 8 colossi della tecnologia dai 500 titoli dello Standard & Poor’s, è addirittura in rosso.

La situazione, in conclusione, appare molto aperta. Avere posizioni di rischio, in particolare in Europa, ha certamente senso se si guarda al 2024 e al 2025, ma se l’orizzonte è la fine del 2023 non sembra opportuno fare scommesse forti in nessuna direzione. E se la temperatura dell’economia e dei mercati si abbasserà nei prossimi mesi, il tepore dei bond brevi e sicuri sarà ancora più piacevole.

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