rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

L’UMBRATILE DECENNALE

I bond lunghi non festeggiano la disinflazione

All’inizio del 2023, con un’inflazione al 6.4 per cento, il Treasury decennale americano, il direttore d’orchestra di tutti gli asset finanziari del mondo, rendeva il 3.74 per cento. Si attendeva del resto una rapida discesa dell’inflazione e l’inizio del ciclo di ribassi dei tassi.

All’inizio del 2023, con un’inflazione al 6.4 per cento, il Treasury decennale americano, il direttore d’orchestra di tutti gli asset finanziari del mondo, rendeva il 3.74 per cento. Si attendeva del resto una rapida discesa dell’inflazione e l’inizio del ciclo di ribassi dei tassi.

All’inizio del 2024, con l’inflazione effettivamente scesa al 3.4, lo stesso Treasury rendeva però di più, ovvero il 3.92 per cento. Le attese erano comunque positive. Si prevedevano sette tagli dei tassi nel corso dell’anno e una caduta ulteriore dell’inflazione. Certo, i bond brevi avrebbero fatto la parte del leone nella discesa dei rendimenti, disinvertendo la curva, ma qualcosa da festeggiare sarebbe rimesto, si pensava, anche per i bond lunghi.

Oggi, dopo la pubblicazione del dato sull’inflazione di settembre che la indica al 2.4. il Treasury decennale rende il 4.08. Insomma, l’inflazione continua a scendere (anche se in settembre ha sorpreso con un piccolo rimbalzo) ma il rendimento del bond lungo continua, sia pure molto lentamente, a salire.

Le possibili spiegazioni non mancano. La più benevola è che si tratta semplicemente del dispiegarsi del processo di normalizzazione della politica monetaria, con il ripristino di tassi reali positivi (anche se non ancora di un term premium). Non siamo più negli anni Dieci, quando i rendimenti reali negativi erano considerati normali anche sulle scadenze lunghe e il rendimento reale attuale non è altro che il ripristino di quello che era consueto fino alla grande crisi finanziaria del 2008.

Altre spiegazioni, che possono peraltro convivere con quella che abbiamo appena descritto, sono più maliziose. La politica fiscale rimarrà espansiva a perdita d’occhio, e il disavanzo americano rischia di allargarsi ulteriormente con la prossima amministrazione, chiunque vinca il 6 novembre. Questo ragionamento è alla base della decisione di Stanley Druckenmiller, un investitore che il mercato segue con attenzione perché da decenni ha risultati eccellenti, di stare al ribasso sui bond per il 12 per cento del suo family office.

C’è poi la politica monetaria, che è passata dalla priorità al ritorno dell’inflazione al 2 per cento all’obiettivo di prevenire qualsiasi indebolimento del mercato del lavoro, che peraltro risulta in salute, come dimostrato dall’ultimo rapporto sull’occupazione e come non smentito dal dato odierno sui sussidi di disoccupazione, in rialzo solo per effetto dell’uragano.

È insomma diffusa la percezione che siamo tornati al 2021, quando la priorità assoluta era la crescita e l’inflazione veniva negata o minimizzata come problema. Certo, allora si trattava di imprimere una forte spinta a un ciclo economico ai suoi inizi e oggi si tratta di prevenirne l’invecchiamento. L’inflazione era allora in crescita ed è oggi in discesa (anche se meno di quanto non pensi una parte del mercato). L’effetto sugli asset finanziari è comunque lo stesso, ovvero euforia delle borse e dei crediti e malumore e diffidenza dei bond lunghi.

Si noti che il dato di oggi include una discesa del prezzo dell’energia dell’1.9 per cento. Dal momento della rilevazione il prezzo del petrolio è però risalito e questo si rifletterà sul dato del mese prossimo.

Si consideri anche che il petrolio riflette una generica preoccupazione per il quadro geopolitico, non una crisi acuta in corso. Il quadro geopolitico è certamente in evoluzione e potremmo essere smentiti in qualsiasi momento, ma è legittima l’impressione che l’attuale amministrazione stia facendo il possibile per attenuare i rischi percepiti e per rimandare a dopo il voto situazioni di particolare tensione. Ricaviamo questa impressione dal fatto che gli attacchi missilistici nel cuore della Russia (molto rischiosi per la possibile risposta russa) sono cessati da qualche tempo, dai ballon d’essai su una disponibilità ucraina alla trattativa e dal fatto che l’attacco all’Iran viene costantemente rinviato.

Questa precario abbassamento dei toni non sembra strategico e potrebbe lasciare il posto, dopo il voto, a una ripresa dell’escalation e a nuovi timori sul prezzo del petrolio. Fortunatamente siamo in un quadro strutturale globale di petrolio abbondante e anche un attacco ai depositi e alle installazioni petrolifere iraniane dell’isola di Kharg, spesso ventilato in questi giorni, difficilmente porterebbe il greggio sopra i 100 dollari. Un rialzo anche limitato a 10-15 dollari e limitato a qualche settimana avrebbe comunque un impatto sull’inflazione.

Le banche centrali, in ogni caso, hanno per il momento tutta l’intenzione di continuare sulla rotta del taglio dei tassi. La Bce taglierà la prossima settimana e, probabilmente, anche in dicembre. La Fed taglierà di 25 punti base dopo le elezioni. Quanto a dicembre, la colomba Daly, presidente della Fed di San Francisco formatasi alla scuola della Yellen, mette un punto di domanda. Manifestata da una colomba, questa incertezza fa pensare che anche i risultati elettorali, oltre ai dati macro, avranno un impatto sulla decisione. Senza arrivare alle conclusioni del presidente della Bundesbank, il socialdemocratico Nagel, che afferma che con Trump la Fed alzerà i tassi l’anno prossimo, non c’è dubbio che la Fed, nel caso, sarà più cauta.

Come si vede, tutto fa pensare che, fino al voto, le borse saranno poco volatili e orientate, quando possibile, verso il rialzo. Dopo il voto l’orientamento di fondo rimarrà lo stesso (favorevole alle borse, un po’ meno ai bond lunghi) ma la volatilità aumenterà. Tenere le posizioni sotto controllo e acquistare protezione aiuterà a superare le possibili turbolenze.

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