rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

MINIMIZZAZIONE DEL RIMPIANTO

Dollaro, bond e azioni dopo il taglio della Fed

Come spesso accade, sono possibili varie letture dei 50 spettacolari punti base di taglio dei tassi da parte della Fed.

Come spesso accade, sono possibili varie letture dei 50 spettacolari punti base di taglio dei tassi da parte della Fed.

La lettura più neutrale e asettica è che la Fed ha tagliato molto perché aveva ampio spazio per farlo. Ottimizzare il tradeoff tra inflazione e crescita è uno dei compiti istituzionali di ogni banca centrale e non ha senso accanirsi su uno solo dei due obiettivi se questo sta muovendosi nella direzione giusta e se invece l’altro si muove nella direzione sbagliata. Non si tengono i tassi più alti del necessario solo per essere completamente sicuri che l’inflazione non risalga se dall’altra parte il mercato del lavoro mostra di avere perso la sua forza straordinaria e si muove ora su un terreno incerto.

Questo terreno incerto, un domani, potrebbe rivelarsi debole. In quel caso, se non si tagliasse aggressivamente oggi, si rimpiangerebbe di non averlo fatto. Ecco allora la nuova parola d’ordine entrata nel gergo della politica monetaria, la minimizzazione del rimpianto. Si taglia aggressivamente non perché sia strettamente necessario farlo oggi, ma perché in futuro si potrebbe essere costretti a tagli affannosi per evitare una recessione.

La minimizzazione del rimpianto, che è un altro modo di definire il principio di precauzione, viene invocata oggi, ma non lo fu quando l’inflazione saliva a vista d’occhio nel 2021. In quella fase si sarebbero dovuti alzare i tassi aggressivamente per non doversi più tardi pentire di non averlo fatto. Come sappiamo si fece il contrario e si cercò in tutti i modi di minimizzare il problema dell’inflazione.

Entrando nel merito della narrazione ufficiale, molte osservazioni critiche sono possibili. La più rilevante è che il timore che il mercato del lavoro si indebolisca ulteriormente è legato alla paura di una recessione, ma la recessione, al momento, non è visibile nei dati macro. I nowcast delle Fed regionali proiettano da cinque settimane una crescita sempre più alta. Quello della Fed di Atlanta registra ora una crescita del 3 per cento nel terzo trimestre in corso. I consumi vanno bene. Quanto alla disoccupazione, il suo aumento è dovuto in buona parte all’aumento degli immigrati, che spesso sostituiscono i nativi. Questo crea l’insolita situazione che vede allo stesso tempo aumentare il numero dei disoccupati e quello degli occupati. L’inflazione, dal canto suo, è ancora sopra il 2 per cento.

Se infine vogliamo dare una lettura politica del taglio della Fed, è difficile negare che le appartenenze politiche abbiano avuto un peso nella decisione. C’è stata una notevole pressione democratica, interna ed esterna alla Fed, per un taglio di 50 punti base e non è un caso che il dissenso ufficiale all’interno del Fomc di ieri, un atto molto raro e impegnativo, sia stato espresso dalla trumpiana Bowman.

La pressione politica per un taglio rilevante non ha l’obiettivo irrealistico di cambiare il percorso dell’economia in queste poche settimane che precedono il voto, ma quello di dare una forte spinta alla borsa. Inanellare una serie di nuovi massimi di borsa in tempi brevi è del resto molto più visibile e spendibile mediaticamente di un decimale in più di crescita fra sei mesi.

Se indossiamo gli occhiali politici l’orizzonte si presenta diviso in due. Da qui al voto tutto bene per l’azionario, con qualche piccolo malumore limitato alla parte lunga della curva obbligazionaria. Dopo il voto dipenderà da chi vince. Se vince Trump vedremo la Bowman diventare colomba e la maggioranza democratica del Fomc diventare meno propensa ai tagli. Il contrario se vincerà la Harris. Queste differenze verranno enfatizzate se chi vince conquisterà anche il Congresso.

Joseph Wang, un ex Fed, nota che dopo il voto ci potrà essere un calo di fiducia da parte delle imprese perché, in questo clima surriscaldato, la metà che perderà le elezioni riterrà che si avvicini la fine del mondo. Se vincerà Trump, gli investitori stranieri, che hanno in portafoglio il 20 per cento della borsa americana, ridurranno la loro esposizione per timore di una forte discesa del dollaro e di un atteggiamento ostile verso alcuni dei Magnifici Sette. Se vincerà la Harris, il forte inasprimento della pressione fiscale sui profitti e sui capital gain gelerà gli investitori domestici.

È una lettura a tinte forti, ma prenderla in considerazione è utile per allenarsi a pensare al 5 novembre come a una cesura e a non prolungare all’infinito il nirvana in cui siamo immersi oggi.

Dopo il nirvana, la fase nuova che si aprirà, pure in tutta la sua incertezza, non sarà necessariamente preoccupante. La robusta put della Fed, la rete di protezione stesa sotto l’economia e i mercati e fatta di continui tagli dei tassi, sarà comunque in funzione per tutto il 2025. Sarà più o meno alta a seconda di chi vincerà, ma non sarà troppo lontana dal livello in cui volteggeranno le borse. La politica fiscale rimarrà largamente espansiva, forse più di ora.

L’azionario avrà da preoccuparsi seriamente solo in caso di recessione, una circostanza, come abbiamo visto, che al momento appare remota. I bond brevi avranno dalla loro le banche centrali. Certo, molto è già nei prezzi, ma c’è ancora spazio.

Più incerto si presenta il destino del dollaro e quello dei bond lunghi. Li si può mantenere come copertura dai rischi geopolitici (il dollaro) o dai rischi di recessione (i bond lunghi), ma in circostanze normali la loro performance sarà subottimale. Del resto, per i rischi geopolitici funzionerà probabilmente meglio l’oro, e per quelli di recessione sarà sufficiente acquistare a leva i governativi di qualità brevi.

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