Trump è fatto così. Toglie l’ossigeno dalla stanza. Qualunque cosa faccia (e in questo secondo mandato ne sta facendo parecchie) suscita reazioni emotive forti. Monopolizza l’attenzione e a nessuno è indifferente quello che fa.
Trump è fatto così. Toglie l’ossigeno dalla stanza. Qualunque cosa faccia (e in questo secondo mandato ne sta facendo parecchie) suscita reazioni emotive forti. Monopolizza l’attenzione e a nessuno è indifferente quello che fa.
Dal 6 novembre si discute sempre meno della Fed, che se ne sta sorniona a osservare lo spettacolo in attesa di vedere Trump avvolto nelle sue contraddizioni. L’anno scorso gli esponenti del Fomc parlavano tutti i giorni più volte al giorno e tutti ne soppesavamo ogni sfumatura e allusione. Oggi tacciono. I pochi che parlano non muovono i mercati. In compenso c’è Bessent tutti i giorni in televisione, impegnato a fornire la versione coerente e ripulita dell’Urschrei trumpiano. E c’è Lutnick, ancora più esposto mediaticamente, che fornisce invece la versione estrema del trumpismo. Si parla molto meno anche di Nvidia, di intelligenza artificiale, di esplosione della crescita dovuta ai balzi di produttività promessi dalle nuove frontiere della tecnologia.
Già, la crescita. Doveva esplodere, quando i mercati guardavano al lato luminoso del trumpismo (deregulation, tagli di tasse, reindustrializzazione forzata) e quando il lato oscuro veniva minimizzato (immigrazione, dazi) oppure veniva promosso a luminoso (i tagli di bilancio che avrebbe fatto un giorno Musk, positivamente simbolici e innocui per la crescita). Negli ultimi due mesi, invece, i mercati hanno avuto occhi solo per il lato oscuro, all’interno del quale primeggiano ovviamente i dazi ma che include anche un forte rallentamento della crescita proprio mentre l’inflazione, pur non particolarmente alta, mette radici nelle aspettative delle imprese e dei consumatori.
Ecco allora che si parla di recessione e di inflazione, ovvero di stagflazione. E si parla anche di uno strano cupio dissolvi dell’amministrazione, che vorrebbe fabbricare una recessione, produrre un ridimensionamento significativo del mercato azionario e del dollaro oltre, naturalmente, all’effetto di autoisolamento politico degli Stati Uniti.
Senza entrare nel dettaglio dei parametri congiunturali, queste letture cupe ci sembrano forzate e frutto della razionalizzazione da parte dei mercati della loro discesa. La quale discesa, un 10 per cento dai massimi, non è, di per sé, niente di che. Nel luglio scorso, in presenza di un’analoga correzione del 10 per cento, non si era certo parlato di recessione imminente o di declino irreversibile dell’America.
L’America, infatti, non sta assolutamente andando così male come si potrebbe pensare guardando i mercati. La crescita, per quest’anno, è stimabile intorno all’1.5 per cento, non molto sotto la velocità di crociera dell’1.75. L’inflazione è persistente ma contenuta e ancora di più lo è l’inflazione salariale. Il mercato del lavoro mostra qualche moderato segno di indebolimento, ma in un contesto di ridotti flussi di immigrazione è precisamente questo che ci si dovrebbe augurare se non si vuole vedere esplodere l’inflazione salariale.
Quanto all’effetto dei tagli di bilancio operato dal Doge di Musk, è certamente più incisivo di quanto non si fosse pensato inizialmente, ma l’efficacia è per il momento più potenziale che reale, anche perché molti tagli sono per ora bloccati dall’azione della magistratura. Quanto ai tagli di imposte, è ancora presto per capire a quanto ammonteranno. Un’ipotesi che ci sembra ragionevole è che i tagli ammonteranno alla metà dei risparmi di bilancio (più il ricavato dei nuovi dazi), mentre l’altra metà andrà a ridurre il disavanzo pubblico.
Sulla base di quanto detto, potremmo considerare terminata la correzione azionaria, anche in considerazione del flusso continuo di azioni di stimolo che il resto del mondo ha avviato, incluso il nuovo pacchetto da 100 miliardi per l’ambiente concordato in Germania con i Verdi in cambio del loro assenso alle altre misure di stimolo, nonché le ulteriori azioni di politica fiscale che la Cina varerà nelle prossime settimane.
Al di là di un limitato rimbalzo, possibile nel brevissimo termine, ci sarà però da aspettare che i mercati metabolizzino i veri dazi, quelli di reciprocità, che Trump annuncerà a partire dal 2 aprile. Questa ondata tariffaria sarà di portata molto superiore a quello che abbiamo visto finora. Per quanto attesa, non tutto è già scontato nei prezzi attuali dei mercati e una nuova fase di turbolenza potrebbe segnare un vero minimo di periodo per l’azionario.
Fin qui abbiamo parlato di questioni (qualche decimale in più o in meno di inflazione, crescita e occupazione) tutte incluse all’interno del paradigma di questo decennio. Questo paradigma prevede alti e crescenti margini di profitto, elevati multipli azionari, continue operazioni di acquistò di azioni proprie rese possibili dall’abbondante disponibilità di credito e dal suo costo contenuto, politiche fiscali espansive e politiche monetarie o espansive o solo leggermente restrittive. Diamo per scontato che questo mondo ottimale sia permanente e viviamo male una correzione del 10 per cento rispetto alla perfezione. Sarebbe però bene, periodicamente, testare la tenuta di questo paradigma, non così frequente nella storia.
Se facciamo oggi questo test, vediamo qualche incrinatura. La mancata collaborazione della Fed, che non compensa con tagli dei tassi l’azione fiscale restrittiva dell’amministrazione (a differenza di quanto accadde negli anni Novanta quando il democratico Clinton tagliò la spesa e il repubblicano Greenspan tagliò i tassi) rischia di erodere ulteriormente i livelli di crescita dell’America. La marginalità, dal canto suo, sembra arrivata a livelli molto difficili da superare. Quanto ai multipli azionari, restano, nonostante la correzione, molto elevati e con poche possibilità di espandersi. L’indebitamento globale continua d’altra parte a crescere.
Sono, questi, fattori strutturali da tenere presenti nell’allocazione. Per ora sono sotto controllo e se mostrano i limiti del potenziale upside delle borse, non per questo indicano imminenti bear market strutturali. Il senso generale che offrono, in ogni caso, è che gli anni del bidenismo, con economie e mercati iperstimolati a livello globale, non avranno seguito. Il ridimensionamento del mercato americano sarà certamente compensato dall’espansione degli altri mercati, ma la somma totale crescerà a velocità contenuta, non ai ritmi degli ultimi anni.
In sintesi, rischi contenuti per i prossimi anni, ma, dall’altro lato, più rotazioni che forti crescite lineari.