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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

RAFFREDDORI E POLMONITI

Perché Cina, Giappone e Svizzera hanno poca inflazione

Il sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aggiorna quotidianamente i dati globali sul Covid. Fino a questo momento ci sono stati 531 milioni di casi confermati e 6.3 milioni di vittime.

Il sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aggiorna quotidianamente i dati globali sul Covid. Fino a questo momento ci sono stati 531 milioni di casi confermati e 6.3 milioni di vittime.

Il Covid circola da trenta mesi in tutto il mondo, ma a differenza di altre epidemie passate, la dispersione nel tipo di danni che procura è particolarmente ampia. Alcuni perdono la vita, altri si ammalano con conseguenze anche durature. Per alcuni è poco più di un raffreddore, altri ancora non si accorgono nemmeno di averlo avuto. Età, comorbidità, vaccini e varianti del virus influenzano l’esito dei contagi, ma le correlazioni sono ancora tutte da studiare.

Anche l’inflazione è un’epidemia globale. Come il Covid, tuttavia, il contagio da inflazione produce esiti diversi. Per un gruppo di paesi ha la gravità di una polmonite. Parliamo di Stati Uniti, Regno Unito ed eurozona. Larry Summers, nel suo ultimo studio pubblicato nei giorni scorsi, ricalcola l’inflazione di oggi utilizzando i metodi di rilevazione degli anni Settanta e ne conclude che abbiamo raggiunto, se non superato, i livelli di allora.

C’è poi un secondo gruppo di paesi, tra i quali Cina, Giappone e Svizzera, per i quali il contagio da inflazione ha finora prodotto solo un leggero raffreddore. Tutto è aumentato di prezzo, certo, ma per questi tre paesi l’inflazione attuale è intorno al 2 per cento, contro l’8-10 per cento del primo gruppo.

La contrapposizione tra i due gruppi è particolarmente interessante perché entrambi hanno sofferto dei problemi che più spesso vengono citati da governi e banche centrali come cause dell’inflazione, ovvero le strozzature della logistica globale e il rincaro delle materie prime. La dipendenza dalle materie prime importate è addirittura superiore nel secondo gruppo rispetto al primo. Stati Uniti e Regno Unito producono gas naturale e petrolio in grande quantità, Svizzera e Giappone devono importare tutto.

Quali sono allora i fattori che spiegano le differenze tra i due gruppi? Tre punti saltano all’occhio e sono tutti politici. Sono la politica fiscale, la politica monetaria e le scelte sulla transizione energetica.

La politica fiscale è stata senza dubbio molto più espansiva nel primo che nel secondo gruppo. In quest’ultimo, la Svizzera è stata l’unico paese a dare una risposta fiscale tempestiva alla crisi, ma il perno della sua azione sono stati i prestiti erogati direttamente alle imprese e non sussidi o spese, per cui il disavanzo complessivo è rimasto ben al di sotto di quello dei paesi del primo gruppo. Ancora più contenuta è stata l’azione di stimolo in Cina, esercitatasi come di consueto più in politiche volte a espandere l’offerta piuttosto che in sostegni alla domanda.

La politica monetaria del primo gruppo ha accomodato gli enormi disavanzi pubblici con massicci acquisti di titoli del debito pubblico da parte delle banche centrali finanziati con creazione di base monetaria. Nel secondo gruppo questo o non è avvenuto o, come nel caso del Giappone, ha continuato ad avvenire con lo stesso ritmo degli anni precedenti.

Quanto alla transizione energetica, il secondo gruppo, che pure è impegnato quanto il primo nella strategia di uscita dai combustibili fossili, ha seguito una strada meno ideologica e, potremmo dire, nevrotica rispetto al primo e ha avuto un approccio più pragmatico. I continui stop and go del primo gruppo (in particolare dell’eurozona) su nucleare, gas e carbone, dettati nell’ultimo decennio dagli umori dell’opinione pubblica, dai programmi elettorali e, in ultimo, dalle sanzioni contro la Russia hanno provocato un aumento fortissimo dei costi dell’energia senza peraltro produrre risultati particolarmente rilevanti in termini di decarbonizzazione.

Il secondo gruppo, con un approccio meno ideologico sul nucleare e una maggiore velocità nell’adeguarsi al nuovo quadro geopolitico (in particolare nel caso cinese) è riuscito a contenere l’inflazione dell’energia in proporzioni accettabili.

Questi tre fattori (fiscale, monetario, energia) non si limitano a spiegare quello che è successo finora, ma possono offrire una chiave di lettura per capire quanto scenderà l’inflazione nella prossima fase.

Il fattore che più giustifica l’attesa di un’inflazione più mite è quello monetario. Come ha detto nei giorni scorsi l’ex governatore della Bank of England Mervyn King, il fatto che le banche centrali stiano iniziando a rallentare seriamente la creazione di base monetaria (e che le banche ordinarie si preparino a contenere la creazione di offerta di moneta) dovrebbe garantire una discesa rilevante dell’inflazione nel prossimo paio d’anni.

Più complicata è invece la situazione sul piano fiscale. Il percorso di rientro nella normalità che molti governi avevano impostato già a partire da quest’anno rischia infatti di essere indebolito dalle spese per il riarmo e dalla necessità di alleviare con sussidi sempre più massicci i danni inferti dall’inflazione dell’energia a imprese e famiglie. A questo si aggiunge il rallentamento della crescita rispetto alle previsioni dei mesi scorsi, con un conseguente calo delle entrate fiscali e l’aumento dei costi per gli ammortizzatori sociali.

Quanto alle politiche sull’energia, il quadro è contraddittorio. Da una parte si lavora per sanzioni sempre più dure contro la Russia, dall’altro si cerca di promuovere il Venezuela e l’Iran a stati autoritari accettabili, pur di avere un pretesto per incentivare le loro esportazioni di petrolio. In Europa si arriva a riaprire al carbone pur di confermare, almeno da parte tedesca, l’opposizione al nucleare. I paesi asiatici in cui la domanda di energia cresce di più, dal canto loro, si preparano a ricevere petrolio, gas e carbone russi a prezzi fortemente scontati, con l’effetto che la loro domanda di fossili potrà continuare ad aumentare senza troppi problemi. Domanda globale in crescita e offerta limitata dalle sanzioni e dalla mancanza di investimenti portano a pensare che il costo dell’energia continuerà a salire fino a quando non si profilerà una recessione globale.

Come si vede, il percorso discendente dell’inflazione sarà meno lineare e sicuro di quanto affermano i governi e le banche centrali. Azioni e bond non mancheranno di celebrare i primi segni di rallentamento dell’inflazione, ma dovranno prepararsi anche ai suoi probabili rimbalzi e, soprattutto, alla possibilità di un pavimento duro sopra il due per cento indicato ufficialmente come obiettivo.

Sui mercati, in pratica, non è tempo per un approccio particolarmente costruttivo, ma non è nemmeno tempo per abbandonarsi al pessimismo perché, nonostante tutto, c’è ancora crescita all’orizzonte per quest’anno e forse anche per il prossimo.

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