rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

RIPENSAMENTI

Azioni e bond ritornano sulla terra

Per una sera, quella del 2 novembre 1948, l’America ha pensato di avere eletto presidente il repubblicano Thomas Dewey. I sondaggi lo avevano dato per mesi come sicuro vincitore, tanto che la sua campagna era stata particolarmente rilassata e poco aggressiva. Tra il 1946 e i 1947, con il suo avversario democratico Truman alla Casa Bianca, l’America aveva subito un doloroso processo di aggiustamento dopo il boom creato dalla guerra. L’economia si era contratta del 12 per cento e l’inflazione, promossa a tavolino dalla Fed per sgonfiare il debito pubblico esploso con le spese belliche, aveva superato il 15 per cento.

Per una sera, quella del 2 novembre 1948, l’America ha pensato di avere eletto presidente il repubblicano Thomas Dewey. I sondaggi lo avevano dato per mesi come sicuro vincitore, tanto che la sua campagna era stata particolarmente rilassata e poco aggressiva. Tra il 1946 e i 1947, con il suo avversario democratico Truman alla Casa Bianca, l’America aveva subito un doloroso processo di aggiustamento dopo il boom creato dalla guerra. L’economia si era contratta del 12 per cento e l’inflazione, promossa a tavolino dalla Fed per sgonfiare il debito pubblico esploso con le spese belliche, aveva superato il 15 per cento.

Dewey contava di trarre vantaggio dal malcontento creato dall’aggiustamento e la sua vittoria era considerata così sicura che il Chicago Daily Tribune, senza attendere i risultati definitivi, la annunciò con enfasi nella sua edizione serale del 2 novembre. Il giorno successivo un Truman raggiante, che si era addormentato sconfitto e risvegliato vincitore, sventolò davanti ai suoi sostenitori una copia del giornale. Quell’immagine, che si ritrova oggi in tutti i libri di storia americani, è diventata il simbolo dell’imprevedibilità degli esiti elettorali.

Non sono solo imprevedibili i risultati del voto. È anche molto difficile prevedere quello che una nuova amministrazione, quale che sia, riuscirà davvero a fare. C’è poi un terzo livello di difficoltà, quello di prevedere quale sarà, negli anni successivi, la reazione dei mercati rispetto a quello che l’esecutivo e il legislativo saranno riusciti a concludere.

Le oscillazioni di questi giorni riflettono i tentativi dei mercati di scontare in anticipo l’esito del voto di martedì prossimo, la difficoltà di individuare un vincitore con i sondaggi in sostanziale parità, il tentativo di trovarlo comunque e la quasi impossibilità, una volta creduto di averlo individuato, di misurarne l’impatto sugli equilibri geopolitici e sull’economia nei prossimi quattro anni.

In questi momenti in cui ogni gestore si sente in dovere di scommettere in una qualche direzione o, al contrario, di comprare protezione, la cosa più saggia può essere stare fermi. È infatti troppo presto per scommettere e comincia a essere tardi, con il Vix a 22, per comprare protezione.

Con un approccio più razionale, evitando cioè di giocare d’azzardo, una parte del mercato cerca di puntare su quello che accomuna Trump e Harris e lo ritrova nella mancanza di volontà di contenere la spesa pubblica. Di fronte alla prospettiva di disavanzi pubblici storicamente elevati per tutto l’orizzonte prevedibile si vendono allora i bond. Invece del bull steepening previsto dal consenso si punta dunque sul bear steepening, ovvero sulla risalita dei rendimenti di tutte le scadenze, in particolare quelle lunghe.

In questo contesto di diminuita fiducia strategica, l’evidente volontà delle banche centrali di continuare a tagliare i tassi rischia di alimentare l’idea della fiscal dominance, ovvero della necessità dei tagli per pagare meno interessi sul debito pubblico, e l’idea che le economie vengono spinte a correre senza sosta per evitare a tutti i costi una recessione che manderebbe il debito fuori controllo.

Di fronte a queste legittime preoccupazioni si può trarre un po’ di conforto leggendo le dettagliate interviste rilasciate a Goldman Sachs da Jared Bernstein e Kevin Hassett, influenti consiglieri economici di Biden e di Trump. Entrambi mostrano molta consapevolezza del fatto che non si può forzare ulteriormente la mano sul disavanzo. Quanto al ridurlo, sperano nella crescita dell’economia. È già qualcosa, ma è molto difficile pensare a un’economia che acceleri dai livelli attuali vicini al 3 per cento.

Suscita dibattito anche uno studio di Andrew Lees di MacroStrategy che definisce l’economia americana uno schema Ponzi. L’America assorbe risparmio dal resto del mondo e ha accumulato una posizione finanziaria netta negativa verso l’estero pari al 78 per cento del Pil. Per attirare i capitali l’America deve farli rendere molto, ma questo extrarendimento, che abbiamo visto per esempio sui titoli della tecnologia, è possibile grazie al continuo afflusso di compratori esteri. Il giorno in cui questo afflusso si dovesse fermare, si avvierebbe una spirale negativa.La tecnologia, in questi giorni, è del resto protagonista della rottura della correlazione inversa tra bond e azioni. La sua debolezza pesa sugli indici azionari, che non contrastano, bensì accompagnano quella dell’obbligazionario.

Perché i grandi della tecnologia sono fermi da mesi? Le ragioni sono varie. Le società continuano a spendere molto sull’intelligenza artificiale e su altre innovazioni tecnologiche (metaversi, visori per la realtà aumentata, auto a guida autonoma), ma i ricavi non coprono se non una piccola parte delle spese. Il mercato di sbocco cinese va chiudendosi. La crescita continua, anche se è scesa dal 25-30 per cento dei trimestri scorsi al 15 per cento di oggi, ma è sostenuti da settori tradizionali (come la vendità di spazi pubblicitari) o divenuti ormai classici, come il cloud.

Detto questo, non sembra giustificato passare radicalmente dall’ottimismo acritico dei giorni successivi al taglio di 50 punti base da parte della Fed al malessere di queste ore.
L’America non è uno schema Ponzi. È semmai la grande compratrice delle economie mercantiliste in surplus, Europa e Asia orientale, che continueranno a riciclare i dollari che incassano nei mercati finanziari americani. Se non compreranno Nasdaq compreranno Treasuries. Se non compreranno asset finanziari americani faranno, come spera Trump, investimenti diretti, ovvero fabbriche, negli Stati Uniti.

L’America non è ancora in una situazione di insostenibilità del suo debito. Il debito, del resto, aumenta anche per molti altri paesi, Cina compresa, e l’America, nello scenario peggiore, sarà probabilmente l’ultimo debitore cui i mercati negheranno la loro fiducia. L’America può andare avanti a lungo, anche se non all’infinito, in questa condizione. Resta certamente, questa sì, una accresciuta vulnerabilità rispetto a shock di varia natura.

La grande tecnologia, dal canto suo, fa un ragionamento con una sua logica. Finché l’economia cresce e il fatturato e gli utili si mantengono su questi livelli, si può continuare a investire massicciamente. Non tutto produrrà i frutti sperati, ma se si può restare sulla frontiera dell’innovazione a un costo che si riesce a sopportare è meglio per tutti.

Le elezioni passeranno. La fase di ottimismo forzato è finita e siamo entrati in una fase di ripensamento. Sullo sfondo la crescita continua (il Fondo Monetario la stima per il 2025 uguale a quella di quest’anno) e le banche centrali sono pronte a tagliare i tassi appena possibile.

L’assestamento di questi giorni crea lo spazio per un ragionevole rialzo di fine anno. Il 2025 non si preannuncia come marcia trionfale, ma resta comunque un anno navigabile con spirito costruttivo. Richiederà però una certa abilità.

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