Trump è divisivo e divisi, naturalmente, sono anche i commenti sul bilancio del Blitz dei sette giorni sui dazi di reciprocità (dal Liberation Day del 2 aprile all’annuncio della moratoria di 90 giorni del 9 aprile).
Trump è divisivo e divisi, naturalmente, sono anche i commenti sul bilancio del Blitz dei sette giorni sui dazi di reciprocità (dal Liberation Day del 2 aprile all’annuncio della moratoria di 90 giorni del 9 aprile).
Per gli uni gli unici risultati raggiunti sono la destabilizzazione dell’economia globale e dei mercati finanziari, il rischio di stagflazione, l’impopolarità degli Stati Uniti nel mondo e l’accelerazione della perdita del ruolo di valuta di riserva da parte del dollaro.
Per gli altri si è trattato di una partita a scacchi complessa e programmata nei dettagli che ha riallineato il mondo contro la Cina, infliggendole un colpo fatale, e che ha indotto il mondo ad accettare con sollievo, se non con entusiasmo, dazi generalizzati del 10 per cento (più dazi di settore del 25 per cento) e a impegnarsi in vari modi ad acquistare prodotti e servizi americani, a pagare di più per la sicurezza offerta dagli Stati Uniti e ad acquistare e detenere Treasuries per un lungo periodo.
Forse il bilancio da trarre da quella che, non dimentichiamolo, è solo la prima fase dell’offensiva dei dazi, è più complesso. C’è stato certamente un canovaccio, basato sull’idea di sorprendere e spaventare tutti e di procedere come uno schiacciasassi, almeno per qualche tempo. C’è stata l’idea di non arretrare di un millimetro anche in presenza di danni collaterali crescenti. C’è stata l’impostazione da giocatore di poker. Ma ci sono anche stati, ci si può chiedere, obiettivi chiari e coerenti? C’è stato un calcolo dei rischi?
Sugli obiettivi dichiarati c’è stato, come nota Dario Perkins, uno slittamento progressivo. Prima i dazi sono stati presentati come merce di scambio, arma di negoziato per ottenere altro, secondo l’impostazione di Bessent e di Miran. Poi come strumento per raccogliere soldi e contenere, insieme al Doge, il disavanzo pubblico. Poi come potente acceleratore della reindustrializzazione dell’America. Poi, sfruttando la discesa delle borse sopravvalutate, come mezzo per abbassare i tassi (quelli del popolo, che guarda i tassi a dieci anni per comprare la casa col mutuo, non i tassi della Fed, guardati dalla finanza). Infine, negli ultimi due giorni, i dazi hanno garantito il riallineamento delle pecorelle globali intorno al pastore americano, che le guiderà adesso nella crociata anticinese, surrogato commerciale della guerra totale.
Se l’ultimo obiettivo viene visto come quello vero, quello che getta luce su tutta la vicenda, allora l’assunzione di Bessent al Tesoro risulta davvero motivata da quel punto del suo curriculum in cui spiega di essere stato lo stratega dell’attacco di Soros alla sterlina nel 1992. Tutta la vicenda dei sette giorni è dunque solo il primo capitolo dell’attacco di Bessent al renminbi, al tentativo di fare implodere la Cina impiccandola a un cambio troppo alto (ora che esporterà di meno) oppure, in alternativa, costringendola a una svalutazione rovinosa per le sue aspirazioni di valuta forte e foriera di fughe di capitali e di instabilità.
Probabilmente il canovaccio di Trump non fa una scelta di priorità tra gli obiettivi che abbiamo visto. Si limita a scuotere l’albero del mondo contando sul fatto che qualcosa di buono ne discenderà a terra. Anche rispetto alla Cina c’è una certa apertura a varie soluzioni, dal dialogo (con la pistola dei dazi ben puntata contro di lei) allo scontro aperto che coinvolga, oltre alle merci, anche i capitali. La sfida per la Cina, a questo punto, è strategica. Ritornare alla condizione di autoisolamento in cui è vissuta per la maggior parte della sua storia? Rinunciare al paziente lavoro di cucitura di rapporti internazionali degli ultimi 15 anni? Accettare un ruolo subordinato rispetto all’America? Resistere e stringere i denti? Andare all’offensiva su Taiwan e cercare di destabilizzare finanziariamente l’Occidente? Lo vedremo presto.
Intanto, i mercati hanno scoperto in questi giorni che la put di Trump esiste e scatta quando i Treasuries lunghi si avvicinano al 5 per cento. A quel punto l’offensiva sui dazi entra in contraddizione con l’obiettivo strategico dei tassi a lungo contenuti che danno respiro a Main Street che deve finanziarsi e a Bessent che deve collocare i suoi titoli quasi tutti i giorni. Non si è vista invece la put della Fed, che si mantiene ad algida distanza dall’amministrazione e che subordina un eventuale taglio dei tassi a una crisi del mercato del lavoro e alla certezza che non ci siano aspettative di inflazione.
Per ora il mercato del lavoro si mantiene solido. Quanto all’inflazione, le aspettative di mercato (non quelle raccolte online dall’Università del Michigan, molto poco utili) sono per una breve fiammata seguita dal rientro nell’ordine nel medio e lungo termine. L’offensiva dei dazi lascerà certamente cicatrici sulla crescita, ma non tali da avviare una recessione.
Rimane ora da capire, per i mercati, come proseguirà l’offensiva. Trump ha interesse a concludere accordi in tempi brevi, sfruttando l’effetto valanga che i primi accordi creerebbero. Cercherà quindi di alimentare un flusso di notizie positive, di cui anche una ripresa della borsa, ai suoi occhi, farebbe parte.
I problemi, per l’azionario, sono la consapevolezza ormai diffusa della sua valutazione già piuttosto piena e l’instabilità dei prossimi mesi. In compenso, si tornerà presto a parlere di altri aspetti dell’azione politica dell’amministrazione Trump, come deregulation e tagli di imposte, che dovrebbero ricreare un clima di maggiore fiducia.
I bond di tutto il mondo incorporano giustamente, sulla parte lunga, un premio per il rischio più alto rispetto al Liberation Day. Quanto ai tassi di policy, le vicende degli ultimi giorni rendono più facile la prosecuzione della linea dei tagli in Europa.
Il dollaro è rimasto immobile durante l’offensiva dei dazi, ma ora che ai dazi sembra essere stato messo un tetto, può riprendere a indebolirsi. Dazi e svalutazione sono due motori complementari e se si ferma uno può ripartire l’altro.
Brilla invece l’oro. Se infatti è bene rimanere cauti sulle borse (almeno per qualche tempo), sui bond e sul dollaro, l’oro appare come alternativa interessante. Il suo punto debole, teoricamente, potrebbero essere vendite cinesi nel caso in cui la difesa del renminbi le richiedesse in alternativa alla vendita di Treasuries, che renderebbe più acuto lo scontro con gli Stati Uniti.