Agosto ha visto la terza correzione del bull market iniziato nell’ottobre 2022. Le prime due avevano avuto come causa i timori persistenti di recessione e di inflazione, le due paure che hanno accompagnato il lungo anno di stretta monetaria da parte delle banche centrali.
Agosto ha visto la terza correzione del bull market iniziato nell’ottobre 2022. Le prime due avevano avuto come causa i timori persistenti di recessione e di inflazione, le due paure che hanno accompagnato il lungo anno di stretta monetaria da parte delle banche centrali.
La terza correzione, dalla quale stiamo uscendo, ha avuto ragioni completamente diverse ed è stata più interessante delle altre perché ha ipotizzato un futuro più verosimile. Lo scenario stagflazionistico disegnato dai pessimisti nelle due precedenti correzioni era infatti ricalcato sul modello degli anni Settanta. Questo sfortunato modello, se così lo si può chiamare, era caratterizzato da continui stop and go dell’economia e della politica monetaria, con bruschi cicli di rialzi dei tassi seguiti da altrettanto bruschi (e prematuri) cicli di ribasso. La politica fiscale, dal canto suo, fu invece, vista con gli occhi di oggi, piuttosto moderata. Carter ereditò da Ford un disavanzo federale del 4 per cento e lo portò a fine decennio al 2.5.
Oggi abbiamo invece una politica monetaria che ha ripreso il controllo della situazione senza bisogno di una recessione, ma una politica fiscale che procede da tre anni a briglia sciolta e che non mostra nessun segno di volere cambiare nel resto del decennio. Ai democratici piace spendere e ai repubblicani piace tagliare le tasse, con il risultato che il disavanzo federale si mantiene ormai su livelli elevati in modo permanente. Questo disavanzo, se non è finanziato con tasse (che anche per i democratici non possono superare un certo limite, pena la perdita di consenso) o con moneta (in una fase in cui la Federal Reserve non è più accomodante) va finanziato con debito.
Questo debito il resto del mondo non lo sottoscrive più volentieri come prima. La Cina, ad esempio, non vende i tre trilioni di titoli del Tesoro americano che ha accumulato in questi decenni, ma non ne sottoscrive più di nuovi. Lo stesso fanno molti altri paesi. Questa non è la dedollarizzazione conclamata di cui si è parlato in modo un po’ affrettato negli ultimi mesi, ma è comunque la fine del ciclo ascendente della dollarizzazione degli ultimi decenni.
Il debito federale (cui va aggiunto quello, anch’esso crescente, dei 50 stati e degli enti locali) va dunque finanziato sul mercato. Il mercato lo compra ma chiede un tasso reale molto più alto di quello, negativo, del decennio scorso e degli anni folli del Covid. Inoltre, con la fine dell’inflazione a portata di mano, finisce anche l’erosione dello stock di debito in rapporto al Pil. Il debito/Pil torna ad aumentare e la qualità del debito si deteriora.
L’inflazione che scende aveva indotto molti a comprare tasso fisso con elevata duration, ma chi l’ha fatto non ha tenuto conto dell’aumento dei tassi reali, divenuto particolarmente evidente quando il Tesoro americano, una volta terminato lo scontro sul tetto all’indebitamento che aveva bloccato le emissioni, si è presentato all’inizio di agosto sul mercato con ingenti quantitativi di titoli da collocare.
Economia in surriscaldamento e tassi reali in rialzo hanno significato, agli occhi dei mercati, la possibilità concreta di ulteriori rialzi dei tassi. Con tassi elevati a perdita d’occhio, l’azionario ha scoperto di essere poco competitivo rispetto all’obbligazionario. A questo si sono poi aggiunte l’idea di una Cina in difficoltà non più solo ciclica ma anche strutturale e quella di un’Europa in stagflazione.
La correzione non è stata violenta, ma è stata comunque sofferta perché è parsa ben motivata. È finita quando i dati sull’inflazione e quelli sul mercato del lavoro hanno mostrato i buoni risultati del lavoro della Fed di quest’ultimo anno. La disinflazione è stata immacolata e non ha prodotto finora danni collaterali significativi. Chi cerca un lavoro oggi ha meno scelta di prima (anche se ci sono ancora più richieste che disoccupati) e questo fa da freno quando si negozia la retribuzione in sede di assunzione. In compenso chi ha un lavoro lo mantiene, ma se lo tiene più stretto di prima e non va a cercarne un altro più pagato.
Bond e borse si avviano verso la fine dell’anno più sereni sotto il profilo ciclico, ma la scoperta agostana del problema strutturale della politica fiscale espansiva accompagnata da tassi reali in rialzo è destinato a fare da freno. A ben vedere, tassi reali in crescita per compensare politiche fiscali espansive sono una ricetta classica. L’ultima volta fu applicata dallo stesso Powell nel 2018, ma da allora e fino a metà 2022, i mercati si sono abituati a politiche fiscali e monetarie entrambe espansive. Ora devono riscoprire che la buona notizia degli stimoli fiscali va compensata con la meno buona notizia dei tassi reali in rialzo.
Quanto alla Cina, il mercato alterna trepidanti attese di misure di rilancio a fasi di sconforto per l’esiguità di queste misure. Dovremo farcene una ragione. La Cina è in grado di gestire le sue difficoltà strutturali in modo ordinato, ma il prezzo è quello di una crescita bassa prolungata nel tempo.
Nel medio termine, la riqualificazione della crescita cinese dall’immobiliare verso la tecnologia e i consumi sarà un fatto positivo per la Cina e per il mondo, ma dobbiamo mettere in conto un processo impegnativo che richiederà tutto il resto di questo decennio.
Quanto all’Europa, la recessione industriale che la colpisce è l’effetto della perdita definitiva delle industrie energivore, cui si aggiunge una politica energetica subottimale. La perdita dei settori energivori è però una tantum ed è lecito sperare che il processo di adattamento dell’industria tedesca porti a una timida ripresa nei prossimi mesi.
Sintetizzando, l’ondata di paura di metà agosto è passata e il mercato azionario, ripulito dagli eccessi, ha voglia di tornare sui massimi dell’anno. Probabilmente ci riuscirà, ma la lezione di agosto rimarrà impressa e renderà difficile una ripresa decisa del bull market. Il 2023 si chiuderà probabilmente poco sopra i livelli attuali, molto meglio di come si era immaginato all’inizio dell’anno ma senza gli eccessi di entusiasmo che avevamo cominciato a vedere in luglio.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.