Perché esistono le banche centrali? Alla fine del Seicento in Inghilterra e poco dopo in Francia la Bank of England e la Banque Générale (antenata della Banque de France) furono istituite per finanziare le nuove spese militari del sovrano (in Inghilterra) o per facilitare lo smaltimento del debito di guerra contratto dal Re Sole nei decenni precedenti.
Perché esistono le banche centrali? Alla fine del Seicento in Inghilterra e poco dopo in Francia la Bank of England e la Banque Générale (antenata della Banque de France) furono istituite per finanziare le nuove spese militari del sovrano (in Inghilterra) o per facilitare lo smaltimento del debito di guerra contratto dal Re Sole nei decenni precedenti.
La Federal Reserve fu creata nel 1913 con un obiettivo diverso. I conti del sovrano erano in ordine, ma la crisi finanziaria del 1907 aveva evidenziato la fragilità delle grandi banche. Un’ondata di fallimenti era stata allora evitata dall’intervento del banchiere John Pierpont Morgan, ma si capì che era meglio, per il futuro, istituzionalizzare il ruolo di salvatore di ultima istanza del sistema istituendo una banca centrale.
Nell’ultima parte del Novecento e nei primi due decenni del nostro secolo due generazioni di studenti di economia (tra cui tutti i futuri banchieri centrali) sono state educate a pensare che la funzione principale delle banche centrali era ancora un’altra, ovvero quella di controllare l’inflazione. Certo, in alcuni paesi a questo ruolo ne veniva affiancato un altro di massimizzazione dell’occupazione, ma anche in questi casi la stabilità dei prezzi rimaneva l’obiettivo primus inter pares.
Con la pandemia si è aperta una fase storica in cui la funzione principale delle banche centrali è cambiata di nuovo. In questa nuova fase assumono rilievo i tre obiettivi che hanno caratterizzato la politica monetaria nelle varie fasi storiche precedenti, ovvero agevolare il sovrano (monetizzandone il disavanzo e tenendone basso il costo con la repressione finanziaria), salvare il sistema finanziario (come è stato fatto nel 2020) e riportare la crescita al suo potenziale. La stabilità dei prezzi è diventato l’obiettivo ultimus inter pares.
L’eccezione, in questo nuovo corso, è rappresentata dall’Asia. Negli ultimi 12 mesi i prezzi in Cina sono saliti solo dell’1.8 per cento, in Giappone dello 0.5 (con l’inflazione core che è addirittura scesa) e nel resto dell’Asia orientale sono rimasti ovunque vicini al 2 per cento. L’inflazione resterà sotto controllo anche nel futuro prevedibile. La ragione è che in Asia da una parte le politiche fiscali sono state molto meno espansive mentre dall’altra l’inflazione salariale ha brillato per la sua totale assenza.
In America e in Europa stiamo assistendo allo sforzo di Fed e Bce di recuperare credibilità sull’inflazione. La credibilità è importante per salvare quello che resta dell’ancoraggio delle aspettative d’inflazione. Se l’ancoraggio saltasse completamente, tutti ci metteremmo a cercare di indicizzare prezzi e salari e il controllo potrebbe essere poi ristabilito solo attraverso una recessione dolorosa.
Nei giorni scorsi, nel tentativo di alzare il livello della retorica antinflazionistica, Powell ha dichiarato la sua ammirazione per Paul Volcker. La grandezza di Volcker, quella per cui fu poi santificato, fu quella di alzare drammaticamente i tassi tra il 1980 e il 1982, provocare due recessioni una dietro l’altra e sopportare due anni di critiche molto dure da parte delle imprese e della finanza.
Possiamo essere certi che Powell non avrà la determinazione di andare fino in fondo nel combattere l’inflazione come fece Volcker e si fermerà molto prima. Il ciclo di rialzo dei tassi e il Quantitative tightening partiranno veloci, ma il ritardo accumulato è grande. D’altra parte la Fed si fermerà non appena vedrà profilarsi all’orizzonte una recessione. Oggi, con un’economia americana e un mercato del lavoro surriscaldati, è facile essere (o fingere di essere) aggressivi, l’anno prossimo sarà molto più difficile.
Il risultato è che l’inflazione rimarrà ben sopra gli obiettivi ufficiali per tutto il tempo prevedibile. Nella storia, in tempo di guerra, non si è mai vista una banca centrale che abbia dato la priorità alla stabilità dei prezzi e non sarà così nemmeno questa volta.
Il discorso vale a maggior ragione per la Bce, che ha di fatto abbandonato l’obiettivo di riportare sotto controllo l’inflazione e si limita a prendere tempo contando sul fatto che le tensioni sui prezzi si smorzino da sole.
Ci sono certamente valide ragioni che spiegano l’atteggiamento delle banche centrali (gli errori sono a monte e risalgono a un 2021 ultraespansivo con un’economia americana surriscaldata) e sarà solo il tribunale della storia a emettere un verdetto equilibrato.
Per gli investitori quello che conta è organizzarsi in vista di una fase che vedrà rialzi dei tassi cui non siamo più abituati ma che manterrà ancora tassi reali fortemente negativi ed eviterà, almeno per quest’anno e forse per il prossimo, una recessione. Per un portafoglio azionario è ovviamente molto meglio evitare una recessione che potrebbe comportare la perdita di un quarto o un terzo del valore e sopportare in cambio un’erosione del potere d’acquisto significativa ma certamente molto minore. Lo stesso vale per un portafoglio di crediti in cui evitare i default è molto più importante che avere un paio di punti d’inflazione in meno.
Per i governativi il discorso è diverso. Il loro ruolo, a questo punto, può essere quello di copertura contro il rischio che una recessione, alla fine, non possa essere evitata. In una fase storica di gravi turbolenze geopolitiche i governativi mantengono la loro ragion d’essere, ma non devono costituire una presenza ingombrante nei portafogli.
Non va del resto dimenticato che due logiche diverse si intrecciano in questo momento. Da una parte c’è una logica economicista, quella cui siamo abituati, che cerca di massimizzare la crescita e di evitare turbolenze. Dall’altra c’è una logica geopolitica che ritiene che questa sia l’ultima occasione per ridimensionare un blocco ostile all’Occidente senza ricorrere a una guerra guerreggiata e limitando i danni (cercando di contenerli) alla sfera economica.
Un portafoglio molto diversificato che includa azioni con bassi multipli, beni rifugio e valute forti sembra la via migliore per convivere con entrambe le logiche.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.