Il problema dei mercati è che non hanno ancora preso le misure della nuova amministrazione Trump. Per un mese, dopo le elezioni, si è provato a esaltarne gli aspetti favorevoli alla crescita. Si è sottolineata la volontà di abbassare le tasse, di attuare una deregulation aggressiva, di aumentare la produzione di combustibili fossili e di reindustrializzare l’America anche attraverso l’imposizione di dazi elevati sulle importazioni.
Il problema dei mercati è che non hanno ancora preso le misure della nuova amministrazione Trump. Per un mese, dopo le elezioni, si è provato a esaltarne gli aspetti favorevoli alla crescita. Si è sottolineata la volontà di abbassare le tasse, di attuare una deregulation aggressiva, di aumentare la produzione di combustibili fossili e di reindustrializzare l’America anche attraverso l’imposizione di dazi elevati sulle importazioni.
Ora invece i mercati si accorgono dei rischi di ripresa dell’inflazione, che è già adesso un po’ più alta degli obiettivi ufficiali e che alcune misure che la nuova amministrazione annuncerà non appena insediata potrebbero rendere ancora più vivace. Il controllo dell’immigrazione renderà infatti meno fluido il mercato del lavoro, alimentando l’inflazione salariale, mentre i dazi, a loro volta, faranno lievitare i costi di molte componenti industriali.
Queste due visioni sono teoricamente riconciliabili in una narrazione che giudica positivamente il trade off tra una crescita che si mantiene forte e il prezzo modesto di qualche decimale di inflazione in più. In questo caso avremmo una riedizione del 2021, un anno estremamente positivo per le borse e neutrale per i bond.
C’è però un punto potenzialmente debole in questa narrazione, ovvero la Fed. Nel 2021 la Fed era apertamente e nettamente schierata per la crescita, anche a costo del surriscaldamento, e ignorava volutamente l’inflazione che stava salendo. Nel 2025, come abbiamo cominciato a vedere dal Fomc di ieri, la Fed avrà un atteggiamento diverso, che in certi momenti ricorderà quello che ebbe nel 2018.
Nel 2018, lo ricordiamo, una Fed che voleva marcare la sua indipendenza dall’esecutivo e che riteneva (erroneamente, come si è poi visto) che i tagli di imposte alle imprese appena decisi dal Congresso avrebbero alimentato l’inflazione, alzò bruscamente i tassi e provocò una pesante correzione dell’azionario. I bond lunghi però si rafforzarono e bilanciarono in parte la discesa dell’azionario.
Nel 2022, annus horribilis, la Fed frenò ancora di più, dichiarandosi disposta a una recessione pur di abbattere l’inflazione, e azioni e bond scesero insieme, non dando scampo a nessuno. Qualcuno, in questi giorni, sta sollevando l’idea che il 2025 possa essere un anno certamente buono per l’economia, ma negativo per gli asset finanziari, tanto azioni quanto bond. Viene agitato lo spettro del 2022 come anno in cui la classica diversificazione tra azioni e bond smette di funzionare, perché la correlazione tra loro diventa positiva.
A noi sembra che, se il 2025 dovrà soffrire di qualche pena, l’analogia sarà con il 2018, non con il 2022. Ci sarà qualche fase, come quella che stiamo vivendo in queste ore, in cui la correzione coinvolgerà tutti gli asset, ma alla fine, tra bond e azioni, prevarrà una correlazione inversa. Lo scenario generale, infatti, è molto più benigno di quello del 2022. L’inflazione è molto più bassa, le materie prime sono tranquille e alla Fed basterà rinviare i tagli dei tassi per segnalare la sua attenzione all’inflazione. Chi parla di rialzi dei tassi nel 2025 ipotizza uno scenario di coda, quello di un’amministrazione Trump che abbandona ogni prudenza e si incammina a marce forzate sulla strada del surriscaldamento.
Lo scenario di base rimane però, a nostro avviso, quello di un’amministrazione che incanalerà la sua energia nel tentativo di forzare una crescita della produttività. Le strada facile di crescere con il disavanzo pubblico è preclusa dai mercati che, in presenza di una Fed non trumpiana, tornano ad assumere la loro funzione di vigilantes. L’altra strada, quella di crescere poco in stile anni Dieci, è estranea alla nuova amministrazione e sarebbe vissuta come una pesante sconfitta. Resta allora, se si vuole crescere senza troppa inflazione e senza troppo disavanzo, la strada della deregulation.
Per il resto, lo spazio non è molto. Fino a metà 2026 la Fed sarà poco collaborativa. Il Congresso repubblicano lo sarà di più ma non di molto, sia perché molte riforme richiedono una maggioranza qualificata che non esiste sia perché la piccola componente di repubblicani non trumpiani sarà comunque sufficiente a bloccare le iniziative più aggressive. Dal 2026 la Fed, con le nuove nomine, avrà un profilo più collaborativo, ma in compenso la camera bassa tornerà probabilmente ai democratici.
Trump guarda molto la borsa e Musk la guarda ancora di più. È significativo, anche se i mercati non lo hanno notato molto, che il compromesso raggiunto in Congresso per alzare il tetto sul debito sia stato bloccato da Trump perché contiene spese discutibili. Trump rischia l’arresto di alcune attività della pubblica amministrazione, che è sempre impopolare, perché vuole rassicurare i mercati sulla sua intenzione di contenere il disavanzo pubblico.
La volatilità di queste ore ha anche ragioni tecniche (scadono, da qui a fine anno, opzioni di ogni genere) ma va vista come un segnale a un mercato che si stava cullando nell’idea di una piacevole Goldilocks permanente. In realtà il 2025 sarà un anno complicato per Wall Street. In compenso sarà positivo per Main Street, ovvero per l’economia reale.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.