L’accordo di Mar-a-Lago non esiste ancora nei libri di storia e forse non vi entrerà mai. È un’ipotesi di lavoro, il nome in codice di un progetto su cui si stanno esercitando da qualche tempo economisti di area trumpiana e osservatori esterni come Zoltan Pozsar. Prende spunto dall’accordo del Plaza del settembre 1985 ed è un capitolo dell’ambizioso progetto di ridisegno degli equilibri economici internazionali che movimenterà (sia che riesca, sia che fallisca) i prossimi quattro anni. Segnerà, se si realizzerà, il punto storico di massimo splendore del dollaro, cui seguirà un graduale ma lungo declino voluto e guidato dagli Stati Uniti e concordato con il resto del mondo.
Uscito dalle traversie degli anni Settanta, il dollaro riprese forza con l’operazione di risanamento guidata dalla Fed di Volcker. Gli altissimi tassi d’interesse utilizzati per domare l’inflazione attirarono capitali verso l’America e il dollaro si apprezzò del 50 per cento, dal 1980 al 1985, nei confronti delle valute europee e dello yen. I capitali si riversarono su Wall Street, che dette avvio al suo rialzo secolare, ma la massiccia rivalutazione del dollaro creò seri problemi all’industria e portò il disavanzo americano delle partite correnti al 3.5 per cento del Pil (oggi è del 3.7).
L’amministrazione Reagan, fino al 1985 favorevole al laissez-faire sui cambi, decise di intervenire e, dopo alcuni mesi di trattative, raggiunse con europei e giapponesi un accordo che fu siglato in forma ufficiale al Plaza di New York. Con quell’accordo si comunicava ai mercati la volontà comune di riportare sulla terra il dollaro. Il messaggio risuonò ampiamente, al punto che nel 1987 fu necessario, con gli accordi del Louvre, correggere l’eccessivo deprezzamento del dollaro. Alla fine del decennio, i cambi con l’Europa tornarono, con perfetta simmetria, al livello del 1980.
Proprio alla fine del decennio prese però avvio il processo di globalizzazione. Nel 1989 la stampa finanziaria iniziò a parlare dello svuotamento (hollowing out) dell’industria americana. Rimanevano negli Stati Uniti la direzione generale, la ricerca e sviluppo e il marketing, si spostava in Asia la produzione. Era visto come un fenomeno positivo, che portava efficienza e abbassava i costi. Una manna per i profitti delle imprese e per i consumatori americani.
Questo modello è però oggi in crisi. C’è una nuova guerra fredda e l’America si ritrova con un apparato industriale che resta in alcuni settori sulla frontiera dell’innovazione ma che è seriamente danneggiato e ridimensionato nei settori tradizionali, quelli che servono, tra l’altro, a produrre armi e munizioni. Il Pentagono suona l’allarme. Gli stati ad antica industrializzazione, svuotati, diventano politicamente fluidi e quindi decisivi per determinare gli equilibri di tutta l’Unione. Trump seduce questi stati nel 2016 denunciando la deindustrializzazione. Biden li riporta a casa nel 2020 promettendo crescita, ma la ottiene al prezzo dell’inflazione. Nel 2024 Trump torna a promettere la reindustrializzazione dell’America.
Deregulation e tagli delle imposte per le imprese possono essere di aiuto, ma occorre anche svalutare il dollaro. In alternativa si utilizzano i dazi. Per svalutare occorrerebbe il consenso della Fed, che dovrebbe inondare il mondo di dollari. Ma non servirebbe, perché Europa e Asia potrebbero a loro volta inondare il mondo con le loro valute. I dazi invece non hanno questa simmetria, perché il resto del mondo importa poco dall’America e i dazi europei o cinesi finirebbero con l’applicarsi a pochi prodotti. I dazi poi li può decidere in un giorno il presidente, senza Fed o Congresso. I dazi, infine, portano introiti fiscali, la svalutazione no.
Dazi su larga scala, dunque, e conseguente rafforzamento del dollaro. Chi paga, alla fine, questi dazi? Il consumatore americano dice l’opposizione democratica. No, dice Scott Bessent (futuro probabile Segretario al Tesoro). Metà la pagano gli esportatori europei e asiatici, che sacrificano una parte del loro margine di profitto per conservare la loro quota di mercato. L’altra metà viene compensata dal dollaro più forte.
Una volta alzati i dazi, iniziano le trattative, paese per paese. Chi vuole l’eliminazione dei dazi dovrà concedere qualcosa all’America (maggiori spese militari nel caso europeo, investimenti industriali negli Stati Uniti per la Cina, rivalutazione del cambio verso il dollaro), altrimenti si terrà i dazi, che potranno anche essere alzati ulteriormente.
Si parla di due linee tra gli economisti trumpiani. Lighthizer sostiene i dazi permanenti. Scott Bessent li vede come strumento di pressione temporaneo, in attesa di una capitolazione che porterebbe a tanti riallineamenti valutari o a un grande accordo globale, da firmare magari a Mar-a-Lago.
Un visionario come Pozsar ipotizza impegni cinesi a detenere Treasuries a cent’anni in un deposito a garanzia in cambio dell’annullamento dei dazi. Ci si può sbizzarrire nei dettagli, ma il filo conduttore sarebbe comunque quello del riequilibrio tra mercantilisti esportatori e America compratrice, da ottenere con le buone o con le cattive.
La misura estrema, al netto dell’uso della forza, sarebbe l’introduzione di un’imposta sugli investimenti finanziari esteri in America, che scoraggerebbe l’afflusso di capitali negli Stati Uniti e porterebbe a una discesa del dollaro. Per ora è solo un’ipotesi accademica. Farebbe scendere la borsa e Trump non vuole questo. Vorrebbe un’industria forte, ma anche una finanza forte.
Bessent e altri sostengono che sia possibile. Un dollaro indebolito aiuterebbe i profitti delle società quotate e la borsa americana, in dollari, potrebbe continuare a crescere.
Economisti indipendenti come Michael Pettis sostengono che il riequilibrio richiede molto più di un aggiustamento artificioso del cambio. L’intero modello cinese, basato sulla compressione dei consumi, e l’intero modello americano, basato sull’indebitamento, dovrebbero cambiare radicalmente.
Staremo a vedere. Per ora dollaro forte e Wall Street forte possono continuare a convivere. Ma non per sempre.
L’accordo di Mar-a-Lago non esiste ancora nei libri di storia e forse non vi entrerà mai. È un’ipotesi di lavoro, il nome in codice di un progetto su cui si stanno esercitando da qualche tempo economisti di area trumpiana e osservatori esterni come Zoltan Pozsar. Prende spunto dall’accordo del Plaza del settembre 1985 ed è un capitolo dell’ambizioso progetto di ridisegno degli equilibri economici internazionali che movimenterà (sia che riesca, sia che fallisca) i prossimi quattro anni. Segnerà, se si realizzerà, il punto storico di massimo splendore del dollaro, cui seguirà un graduale ma lungo declino voluto e guidato dagli Stati Uniti e concordato con il resto del mondo.
Uscito dalle traversie degli anni Settanta, il dollaro riprese forza con l’operazione di risanamento guidata dalla Fed di Volcker. Gli altissimi tassi d’interesse utilizzati per domare l’inflazione attirarono capitali verso l’America e il dollaro si apprezzò del 50 per cento, dal 1980 al 1985, nei confronti delle valute europee e dello yen. I capitali si riversarono su Wall Street, che dette avvio al suo rialzo secolare, ma la massiccia rivalutazione del dollaro creò seri problemi all’industria e portò il disavanzo americano delle partite correnti al 3.5 per cento del Pil (oggi è del 3.7).
L’amministrazione Reagan, fino al 1985 favorevole al laissez-faire sui cambi, decise di intervenire e, dopo alcuni mesi di trattative, raggiunse con europei e giapponesi un accordo che fu siglato in forma ufficiale al Plaza di New York. Con quell’accordo si comunicava ai mercati la volontà comune di riportare sulla terra il dollaro. Il messaggio risuonò ampiamente, al punto che nel 1987 fu necessario, con gli accordi del Louvre, correggere l’eccessivo deprezzamento del dollaro. Alla fine del decennio, i cambi con l’Europa tornarono, con perfetta simmetria, al livello del 1980.
Proprio alla fine del decennio prese però avvio il processo di globalizzazione. Nel 1989 la stampa finanziaria iniziò a parlare dello svuotamento (hollowing out) dell’industria americana. Rimanevano negli Stati Uniti la direzione generale, la ricerca e sviluppo e il marketing, si spostava in Asia la produzione. Era visto come un fenomeno positivo, che portava efficienza e abbassava i costi. Una manna per i profitti delle imprese e per i consumatori americani.
Questo modello è però oggi in crisi. C’è una nuova guerra fredda e l’America si ritrova con un apparato industriale che resta in alcuni settori sulla frontiera dell’innovazione ma che è seriamente danneggiato e ridimensionato nei settori tradizionali, quelli che servono, tra l’altro, a produrre armi e munizioni. Il Pentagono suona l’allarme. Gli stati ad antica industrializzazione, svuotati, diventano politicamente fluidi e quindi decisivi per determinare gli equilibri di tutta l’Unione. Trump seduce questi stati nel 2016 denunciando la deindustrializzazione. Biden li riporta a casa nel 2020 promettendo crescita, ma la ottiene al prezzo dell’inflazione. Nel 2024 Trump torna a promettere la reindustrializzazione dell’America.
Deregulation e tagli delle imposte per le imprese possono essere di aiuto, ma occorre anche svalutare il dollaro. In alternativa si utilizzano i dazi. Per svalutare occorrerebbe il consenso della Fed, che dovrebbe inondare il mondo di dollari. Ma non servirebbe, perché Europa e Asia potrebbero a loro volta inondare il mondo con le loro valute. I dazi invece non hanno questa simmetria, perché il resto del mondo importa poco dall’America e i dazi europei o cinesi finirebbero con l’applicarsi a pochi prodotti. I dazi poi li può decidere in un giorno il presidente, senza Fed o Congresso. I dazi, infine, portano introiti fiscali, la svalutazione no.
Dazi su larga scala, dunque, e conseguente rafforzamento del dollaro. Chi paga, alla fine, questi dazi? Il consumatore americano dice l’opposizione democratica. No, dice Scott Bessent (futuro probabile Segretario al Tesoro). Metà la pagano gli esportatori europei e asiatici, che sacrificano una parte del loro margine di profitto per conservare la loro quota di mercato. L’altra metà viene compensata dal dollaro più forte.
Una volta alzati i dazi, iniziano le trattative, paese per paese. Chi vuole l’eliminazione dei dazi dovrà concedere qualcosa all’America (maggiori spese militari nel caso europeo, investimenti industriali negli Stati Uniti per la Cina, rivalutazione del cambio verso il dollaro), altrimenti si terrà i dazi, che potranno anche essere alzati ulteriormente.
Si parla di due linee tra gli economisti trumpiani. Lighthizer sostiene i dazi permanenti. Scott Bessent li vede come strumento di pressione temporaneo, in attesa di una capitolazione che porterebbe a tanti riallineamenti valutari o a un grande accordo globale, da firmare magari a Mar-a-Lago.
Un visionario come Pozsar ipotizza impegni cinesi a detenere Treasuries a cent’anni in un deposito a garanzia in cambio dell’annullamento dei dazi. Ci si può sbizzarrire nei dettagli, ma il filo conduttore sarebbe comunque quello del riequilibrio tra mercantilisti esportatori e America compratrice, da ottenere con le buone o con le cattive.
La misura estrema, al netto dell’uso della forza, sarebbe l’introduzione di un’imposta sugli investimenti finanziari esteri in America, che scoraggerebbe l’afflusso di capitali negli Stati Uniti e porterebbe a una discesa del dollaro. Per ora è solo un’ipotesi accademica. Farebbe scendere la borsa e Trump non vuole questo. Vorrebbe un’industria forte, ma anche una finanza forte.
Bessent e altri sostengono che sia possibile. Un dollaro indebolito aiuterebbe i profitti delle società quotate e la borsa americana, in dollari, potrebbe continuare a crescere.
Economisti indipendenti come Michael Pettis sostengono che il riequilibrio richiede molto più di un aggiustamento artificioso del cambio. L’intero modello cinese, basato sulla compressione dei consumi, e l’intero modello americano, basato sull’indebitamento, dovrebbero cambiare radicalmente.
Staremo a vedere. Per ora dollaro forte e Wall Street forte possono continuare a convivere. Ma non per sempre.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.